A Torino Articolo 21 ricorda Bruno Caccia. Perché il passato insegna
Ci sono tanti punti di vista con i quali guardare ancora una volta alla storia di Bruno Caccia, che fu Procuratore della Repubblica a Torino e che venne assassinato il 26 Giugno del 1983, sotto casa sua, una notte che avrebbe portato l’Italia nel suo nuovo futuro poiché si votava ed il voto avrebbe premiato il Partito Socialista ed il suo leader ardimentoso, Bettino Craxi.
Un Procuratore capo assassinato per ordine della ‘ndrangheta in una Città che ancora nel 2008 (venticinque anni dopo il delitto) prenderà a male parole l’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia che si permise di avvertire Torino che il problema mafia non era ne’ sepolto, ne’ risolto.
Un assassinio apparentemente semplice (la ‘ndrangheta a Torino non poteva tollerare un magistrato tanto intransigente ed inavvicinabile), ma segnato da particolari inquietanti ed ancora oggi non chiariti.
Tra i tanti punti di vista adottati in questi anni e fin qui soltanto evocati, voglio assumerne uno particolare, insolito, almeno per me: il 1983 non è soltanto l’anno in cui matura la decisione di assassinare Caccia, è anche l’anno in cui esplode a Torino lo scandalo Zampini, che anticipa di dieci anni la “tangentopoli” milanese.
Nel 1983 il Sindaco di Torino è Diego Novelli, giornalista e comunista, guida la Città per il secondo mandato, ha una maggioranza composta da comunisti e socialisti. La sfida per l’amministrazione in quel periodo è spendere bene una valanga di soldi per la prima sistematica informatizzazione dei servizi comunali (una specie di piccolo PNRR): gli appetiti sono famelici sia tra chi vende sia tra chi deve comprare. In mezzo a fare da facilitatore sta un intraprendente Adriano Zampini che racconterà non più tardi di un anno fa di aver pagato tangenti per quasi sette miliardi di vecchie lire. C’è in questa storia un ingegnere che non sta al gioco e ne parla col Sindaco ed il Sindaco, avvertita la Procura della Repubblica, senza alcuna esitazione, lo fa letteralmente scortare in Tribunale perché possa denunciare tutto quanto. Il terremoto arriva in Marzo (Caccia è ancora vivo e guida la Procura), la Giunta Novelli salterà ad Ottobre dello stesso anno, il Sindaco capitolerà definitivamente nel novembre del 1984 e pur ricandidato non troverà più il consenso necessario per tornare Sindaco, al suo posto Giorgio Cardetti (a conferma che più che il male, si odia chi il male lo racconta).
Dalla sovrapposizione temporale tra il più grave delitto di mafia commesso nel Nord Italia ed il più grave scandalo di corruzione politica prima di Tangentopoli, traggo e propongo due questioni.
La prima: è lecito ritenere che esista un nesso, magari soltanto indiretto, tra la diffusa corruzione politica e l’agibilità “sociale” per un simile delitto mafioso? Detto altrimenti ed al netto di precise, eventuali, responsabilità penali, esiste un rapporto tra corruzione politica e forza delle mafie? Sembra quasi banale rispondere di sì, perché la corruzione politica contribuisce in maniera determinante a creare un ambiente di relazioni amorali, fatto di favori inconfessabili, di ricatti temuti, di funzioni prostituite, di confusione tra interessi e di rapporti tra mondi altrimenti (almeno sulla carta) lontanissimi. Zero gradi di separazione, si potrebbe dire, il che rende tutto possibile.
In una intervista rilasciata recentemente dallo Zampini a Stefano Lorenzetti per L’Arena, emerge un reperto davvero interessante, chissà se e come conosciuto e vagliato dagli investigatori (per carità, la millanteria è sempre una possibilità), racconta lo Zampini: “anche io dovevo fare la fine di Caccia, mi salvai perché cercai la protezione del nipote di Badalamenti, Salvatore Badalamenti, che allora aveva una sala da ballo a Nichelino”. Quale lezione da questa prima questione? Che l’anti mafia si fa anche prevenendo e contrastando senza cedimenti la corruzione nella Pubblica Amministrazione latamente intesa (penso al grande perimetro delle società direttamente o indirettamente conducibili al governo cittadino), favorendo in ogni modo l’emersione, la raccolta e la tempestiva valutazione di segnalazioni, pure anonime, sia interne che esterne alla PA.
La seconda questione: il così detto “primato della politica” può aver concorso negli anni a fare di un certo ceto politico un centro di potere allergico al principio di legalità e quindi propenso alla gestione “politica” persino delle condotte illecite, quando queste entrino nel campo del conflitto per il potere? Nel 1983 il leader socialista Bettino Craxi tuonò contro Diego Novelli che aveva mandato l’imprenditore in Procura: “Novelli deve dimettersi, non ha più la fiducia del PSI!”, di conseguenza inviò a Torino il suo braccio destro prediletto a commissariare il Partito (azzerato nei suoi vertici dalla inchiesta), cioè Giuliano Amato, che redarguì Novelli con parole chiare e precise: “Novelli, la questione andava gestita politicamente!”. Parole non meno chiare e precise adoperarono di lì a poco alcuni dirigenti comunisti di peso che sbarrarono la strada della Direzione nazionale del PCI ad un Diego Novelli che pure godeva del sostegno di Berlinguer: “Novelli è un povero cretino, moralista!”. Insomma: i panni sporchi si lavano in casa e la magistratura non è da intendersi come il presidio di legalità della democrazia, ma semplicemente come un altro centro di potere da tenere a bada con sincera diffidenza e sicuramente fuori dalle dinamiche di partito (a meno di servirsene. O provare a farlo).
Quante analogie con il periodo 1990-1994 e con processi clamorosi come quelli ad Andreotti, Dell’Utri, Berlusconi, Mori! Per un ceto politico del genere (che fatalmente virerà verso l’abolizione della obbligatorietà dell’azione penale e della indipendenza della magistratura) magistrati subordinati soltanto alla Legge, che non guardano in faccia a nessuno, sono delle mine vaganti, sono dei “cretini moralisti”, sono da marginalizzare, nella migliore delle ipotesi. E’ questo il filo che lega la vicenda di Bruno Caccia a quella di Carlo Palermo.
È questo il destino subito, pur con esiti meno tragici, da magistrati come Gian Carlo Caselli, che pagò il processo Andreotti trovandosi la strada per la Procura Nazionale Antimafia sbarrata da una legge “contra personam” voluta da Berlusconi&Soci. O il destino che potrebbero oggi ancora subire magistrati in prima linea sul fronte degli intrecci ignobili tra potere politico e criminalità organizzata (non faccio nomi per scaramanzia!). Torino oggi non è più quella di quarant’anni fa e la consapevolezza sul pericolo rappresentato da mafie e corruzione è certamente aumentata, ma la tentazione di ricorrere alla “gestione politica” di certe magagne è come il virus della varicella, capace di restare “in sonno” per anni, senza mai scomparire del tutto, pronto a riprendersi la scena. Il ceto politico è avvertito.
E nei prossimi mesi arriverà in Città un nuovo Procuratore, proprio uno di quelli che la materia l’ha arata quanto basta: Giovanni Bombardieri.
* Presidente Articolo 21 Piemonte
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