Il piccone di don Ciotti a Calimera con il berretto di Antonio Montinaro
La simbologia del bene. Il piccone della cultura. La necessità della memoria collettiva.
Un prete di strada che indossa il berretto di un poliziotto ucciso dalla mafia, la musica che placa e agita i pensieri, un mucchio di estranei che diventa famiglia.
L’antimafia sociale è questo. Fuor di chiacchiera, lungi da palchi malfermi, protetti da riflettori che sfocano l’obiettivo reale.
Don Ciotti ha indossato il berretto di Antonio Montinaro, caposcorta di Falcone caduto a Capaci 32 anni fa, sull’altare della chiesa Madonna della Fiducia di Calimera – dove Antonio è nato e cresciuto – per infondere una benedizione speciale, a chi abita dimensioni altre, a chi è rimasto e porta la spina nel fianco della memoria e dell’impegno e a chi sceglie di non tacere e fare la sua parte senza bisogno di coinvolgimenti diretti.
Bungaro e Raffaele Casarano dal pulpito hanno interpretato Io non ho paura e Guardastelle, per Antonio, i suoi compagni di destino, le vittime innocenti di mafia e la gente che non si volta dall’altra parte né abbassa la testa ma anzi rivendica il suo diritto di essere perbene. Eccola la famiglia per caso e l’impegno per scelta.
Né dramma né commedia, ma verità.
Quella che tanti chiedono ma ai più fa paura perché costa fatica e responsabilità, nemici e scelte drastiche.
Il palco della vita, a Calimera, ha accolto i battiti di un momento di verità necessaria e collettiva, guardando dritto negli occhi Tilde sorella di Antonio e i familiari di Angelica Pirtoli, Renata Fonte, Michele Fazio vittime di mafia pugliesi, lo Stato migliore con toghe e divise, i bambini coi loro animi intonsi e i cittadini comuni con le loro storie minime di soldati impavidi di una guerra altra.
Combattuta con coscienza civile e spina dorsale tesa.
C’è differenza tra chiacchiera e parola, riflettori e riflessioni.
Calimera lo ha confermato, scrivendo una pagina di dignità da tenere da conto.
La parola “mafia” con tutta la sua sostanza è riecheggiata più volte in quella chiesa. Per necessità.
La necessità di andare a fondo, togliere la polvere da sotto il tappeto, sentire il peso della violenza e del male, le brutture di due sillabe che hanno cambiato e segnato la storia del nostro Paese per 170 anni e tuttora ne minano la tenuta stabile.
“La democrazia nel nostro Paese è pavida, non abbiamo ancora preso piena coscienza della peste mafiosa e della peste corruttiva. I neutrali, quelli che stanno nel mezzo, sono il pericolo dei nostri tempi”, ha ripetuto don Ciotti col suo berretto da poliziotto.
Un’altra parola invece non s’è sentita quasi per niente: antimafia.
Termine abusato, gallone a tempo in tempi di neutrali a ufa.
L’antimafia di fatto non si dice, si fa. È normalità, scelta di vita, strada quotidiana, spesso in salita e piena di curve a gomito, da percorrere a piedi per no uscire fuoristrada. Talmente bella che va custodita dentro, nell’animo, e condivisa proprio come accaduto in quella chiesa del profondo Salento due sere fa.
E va cantata, l’antimafia così come si canta la vita. Così il manifesto che le appartiene resta nell’aria, tra la gente, e non rischia di mutare in un cartellone stracciato su una parete di fortuna.
L’antimafia non ha dimensione finita, guarda oltre: “da qui, mi stacco da terra ad immaginare. da qui, chissà se c’è un mistero grande da scoprire. da qui, una libera preghiera per una pace da inventare. ho fantasia e posso anche volare. guardastelle, guarda, in questo mare di stelle. guardastelle, guarda, è un cielo di fiammelle”.
* Portavoce Articolo 21 Puglia
Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno
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