Julian Assange, ora nessuna lezione di democrazia universale
Ora non venite a dirci che la democrazia occidentale è un modello universale.
La buonissima notizia che giunge da Londra ci riempie di gioia e va ascritta ad onore e merito delle mobilitazioni mondiali a favore del giornalista australiano fondatore di Wikileaks.
Essa rappresenta senz’altro una tappa importante: riconoscendo la fondatezza del suo ricorso, che ha posto dubbi circa la garanzia di un giusto processo negli Stati Uniti, l’Alta Corte di Londra ha concesso un’ulteriore possibilità di appello a Julian Assange contro l’estradizione negli Usa. Giochi dunque aperti.
Come ha subito detto il consulente legale di Amnesty International, Simon Crowther, si tratta di “una rara buona notizia per Julian Assange e per tutti coloro che difendono la libertà di stampa”, dove a colpire è, ovviamente, quel rara che sta a dire dell’intento persecutorio della caccia scatenata contro di lui e dell’indifferenza verso la libertà dell’informazione.
Nonostante l’Alta corte non sia affatto rappresentata da esponenti del progressismo radicale, con la sua conclusione dice al mondo che, se venisse estradato negli Usa, Assange potrebbe rischiare gravi violazioni dei diritti umani come l’isolamento prolungato, in contrasto col divieto di tortura e altri maltrattamenti. Non una quisquilia, dunque. Il punto di rottura di questa offensiva contro Assange deve esser stata il superamento della decenza della macchina repressiva, oltre che l’opportunità politica (dopo Navalny occorre uno ‘stacco’).
Incriminato con 17 accuse di spionaggio e un’accusa di uso improprio del computer, i pubblici ministeri statunitensi chiedono per lui 175 anni di prigione, accusandolo della pubblicazione, quasi 15 anni fa, sul suo sito web, di una serie di documenti statunitensi riservati: in realtà si tratta di informazioni vitali per smascherare la natura criminale del potere americano che ha condotto guerre disumane nascondendo i suoi metodi brutali. Per questo il mondo democratico si è ribellato, sostenendo il giornalista: la sua incriminazione è un atto di negazione della libertà di stampa che ridicolizza gli obblighi di diritto internazionale degli Stati Uniti e del mondo occidentale e il decantato impegno per la libertà d’espressione.
Chiedendo per lui una cella a vita, gli Usa dicono al mondo che la libertà d’espressione va bene ma se sono loro a decidere cosa dire o non dire. E chi sgarra paga. Per questo non vorremmo sentire lezioni di democrazia universale dopo questa sentenza, perché il caso Assange in una democrazia non sarebbe dovuto proprio mai iniziare. E se c’è ancora uno spiraglio, forse, lo si deve ad una autorità morale che si dà molto da fare dietro le quinte, e che, tra una preghiera al cielo e un inviato che conosce la diplomazia, forse può aver fatto la differenza.
Il Fatto Quotidiano, il blog di Stefania Limiti, 20/05/2024
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