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La separazione delle carriere e quello che Nordio non dice

Gian Carlo Caselli il . Costituzione, Diritti, Giustizia, Istituzioni, Politica

Tocca ringraziare il ministro Carlo Nordio. Chi l’avrebbe mai detto?

Propagandando la sua pseudo riforma della giustizia (nella quale non si parla del vero problema da affrontare: la vergognosa interminabile durata dei processi; ma si procede con ostinata ossessione verso la deleteria separazione delle carriere fra pm e giudici), il ministro gigioneggia col suo passato di pm, garantendo per ciò stesso che la sua riforma non potrà abbassare neppure di un millimetro il livello di indipendenza di cui oggi il pm – grazie alla Costituzione democratica ancora in vigore – gode rispetto al potere esecutivo e segnatamente al ministro della Giustizia.

Anche tralasciando “il precedente” della fiducia manifestata del ministro, dopo una diretta sperimentazione, verso la “prova Minnesota”, ancorché essa collegasse l’idoneità del magistrato, tra l’altro, alla temperatura dei piedi; la personale “garanzia” di Nordio in tema di separazione delle carriere legittima chi è stato pm come lui a intervenire ancora una volta sullo stesso tema.

Tanto per cominciare c’è un problema di coerenza che Nordio neppure si pone. Si dice che a rendere cosa buona e giusta la separazione sarebbe il fatto che la comunanza di carriere (icasticamente rappresentata con il caffè o con l’auto che pm e giudici prendono insieme…) inciderebbe negativamente sul processo, determinando una pericolosa dipendenza di chi controlla rispetto a chi deve essere controllato.

Ma allora, per coerenza dovrebbero essere rescissi anche i rapporti fra i giudici dei diversi gradi del processo, cioè fra i giudici di primo grado, d’appello e cassazione. Capita infatti anche a loro di prendere un caffè o un’auto insieme…

E proprio per coerenza si dovrebbero prevedere non solo due concorsi (per pm e giudici) ma tre o più, non solo due ma tre o più Csm, non solo due ma tre o più carriere separate.

Una strada improponibile, senza uscita, che tuttavia indica chiaramente come l’obiettivo vero ma inconfessabile della separazione sia colpire il pm per mortificare o inceppare l’anello d’avvio della giurisdizione penale, condizionando inevitabilmente anche le fasi successive.

Giurisdizione che sarebbe comunque travolta nella sua libertà e indipendenza se mai dovesse passare l’abolizione della obbligatorietà dell’azione penale (oggi sancita dall’art. 112 della Costituzione), posto che al progetto di separazione delle carriere si affianca di solito quello di introduzione della discrezionalità dell’azione penale, regolata però da cogenti direttive ministeriali.

Una delle principali obiezioni che si muovono ai magistrati, in servizio o in pensione, che sostengono le tesi ora illustrate è di essere malati di corporativismo. Ma l’indipendente esercizio della giurisdizione non è un patrimonio della casta dei magistrati. Non scherziamo! È invece un prezioso patrimonio dei cittadini.

Nel senso che senza una magistratura indipendente, ci sarà sempre (e ciò avviene appunto con la separazione delle carriere) qualcuno che in un modo o nell’altro potrà legittimamente dire al magistrato a chi fare la faccia feroce e a chi invece gli occhi dolci. Una pietra tombale, la fine anche solo della speranza di poter avere una giustizia almeno tendenzialmente uguale per tutti e non attenta soprattutto alle “esigenze” di chi può e conta ed è in sintonia col potere politico contingente, non importa ovviamente di che colore, rosso o nero, giallo o verde.

Si sostiene ancora che la separazione delle carriere esiste in vari paesi democratici senza che debbano registrarsi inconvenienti. A parte che molti di questi paesi invidiano proprio il nostro sistema, sta di fatto che in essi la politica sa come “bonificarsi”, espellendo o neutralizzando i pezzi malati.

Cosa che nel nostro paese non sempre avviene, sicché pezzi della politica (senza generalizzare, pezzi: ma pezzi talora consistenti) risultano implicati in casi di corruzione o di malaffare fino alla mafia.

Conviene lasciare che la politica, con queste presenze, possa influire sull’esercizio della giurisdizione? Non sarebbe un po’come introdurre la volpe in un pollaio? Sono interrogativi spiacevoli e scomodi, che però – nell’interesse della qualità della nostra democrazia – non si possono ignorare.

Fonte: La Stampa

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