Il commiato. L’ultima lezione dello storico che seppe vivere e non volle essere “tesoro”
Leggete, per favore: “Verso le 8 di sera del 4 maggio di questo 2024 è giunto per me il tempo di raggiungere le alte sfere della materia più sottile. Come ho detto più volte: ‘Mi divertirò tantissimo quando sarò una particella!’. Bene, ora eccomi qua…Si ricomincia!”. Così il professor Roberto Moro, già ordinario di Storia delle dottrine politiche, ha voluto salutare amici e colleghi accingendosi a lasciare questo mondo.
“Prima però di congedarmi da mail, messaggi e chiamate volevo porgere un saluto a tutti i miei amici più cari, ai fratelli di adozione e ai compagni di avventura”. Spiegando: “Prima di tutto un breve resoconto dei miei ultimi giorni in queste spoglie: che menata! Sonno, fastidio e rumori: mi hanno messo il casco da astronauta e la maschera da sommozzatore e no…non fa per me. Io bramavo solo una sigaretta e un aperitivo all’aperto, ma niente da fare. Tutto sempre negato! Come si fa a vivere così?”.
L’anziano professore se ne è andato “con l’aiuto di un po’ di sana morfina”. La lettera agli amici è intrisa di ironia ma anche di orgoglio per quanto ha fatto, per l’elenco sterminato dei compagni di avventura, per le frequentazioni intellettuali, dagli studi sulla Rivoluzione francese a quelli sulla imprenditoria italiana. Ed è il tramite per offrire “il mio più grande insegnamento” degli ultimi momenti: “La gratitudine è il dono più ricco che possiate avere e l’amore per la vita è gratitudine, quindi vivete! Con gusto e intensità, e siate grati di ogni momento”.
Che dire, ricevendo questa lettera? Che la morte è davvero un mistero, che forse il modo in cui una persona se ne va dipende anche da come ha vissuto. E che davvero ci sono modi di andarsene in grado di tutelare la nostra dignità, così importante agli occhi di chi, come Roberto, ha passato la vita insegnando ai giovani, il più grande privilegio che possa toccare a essere umano.
Ho conosciuto decenni fa il professor Moro nella facoltà di Scienze Politiche di Milano, e del suo modo di affrontare la vita ricordo molte cose. Gli aperitivi, forti e possibili a ogni ora, altro che “apericene”. Le discussioni infervorate su “questo paese”, oggetto permanente dei suoi strali, una specie di Cartagine mentale da distruggere per costruirvi sopra nuove grandezze civili.
Le analisi assai professionali della politica, suscitatrice in lui di passioni vivide e di disprezzo morale. Il piacere di raccontare e di spiegare la storia ai suoi studenti. Lo ritrovo tutto in questa lettera, scritta prima del momento dell’ultimo passaggio.
Ma a conquistarmi è stato quel che è successo probabilmente tra la sua stesura e il suo invio. Gli ultimi due giorni sono stati comprensibilmente i più difficili, almeno da un punto di vista fisico. Problemi a muoversi, problemi a comunicare. Sempre circondato dagli aggettivi e sostantivi affettuosi di medici e infermieri. Con un’infermiera sempre attenta. “Come stai carino?”. “Non agitarti tesoro”.
L’ultimo giorno, ha raccontato il figlio, il prof ha iniziato a muoversi e a far segni dall’interno del suo casco di astronauta. Si è capito che voleva urgentemente dire qualcosa. Ci si guarda negli occhi. Forse vorrà dirci qualcosa di importante? Così il casco viene delicatamente rimosso o aperto, aperta anche la mascherina per consentirgli di parlare. “Ecco, tesoro”. E con un filo di voce il professore parla: “Non chiamarmi ‘tesoro’; chiamami ‘prof’”.
Grandioso, l’ho trovato assolutamente grandioso. Già è insopportabile questo sentirsi dire “Ciao caro” da un barista, un oste, una cassiera sconosciuti che hanno talvolta mezzo secolo in meno di età. Ma sentirsi dire “tesoro” mentre si sta morendo, sentirsi privare proprio in quei momenti anche dell’identità di tutta una vita, è l’ultima, involontaria ferocia che si subisce negli ospedali, là dove il potere è infinitamente diseguale tra chi vive e chi se ne va.
Bravo Roberto che ti sei ribellato.
Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 13/05/2024
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