“Il vincolo di soggezione alla legge è ineludibile per l’indipendenza della magistratura”
Palermo 10 maggio 2024. Relazione introduttiva al 36° congresso nazionale Associazione Nazionale Magistrati.
1. Signor Presidente della Repubblica, Sua Eccellenza Arcivescovo di Palermo, signori giudici costituzionali, signor vicepresidente e signori componenti del Consiglio superiore della Magistratura, onorevoli rappresentanti del Parlamento nazionale, del Governo della Repubblica e del Parlamento regionale, Autorità tutte, civili e militari; gentili ospiti, avvocati ed esponenti del mondo accademico; care colleghe, cari colleghi; cittadine e cittadini.
A nome dell’Associazione nazionale magistrati porgo i saluti e un sincero ringraziamento per la vostra presenza.
Un particolare e deferente saluto rivolgo al Presidente della Repubblica, facendomi interprete dei radicati sentimenti di gratitudine dei magistrati italiani per l’attenzione e la vicinanza che sempre ci ha riservato.
Ringrazio vivamente il Sindaco di Palermo, il Presidente dell’Assemblea regionale e il Presidente della Regione siciliana per gli indirizzi di saluto con cui hanno inteso onorare la giornata di apertura del Congresso.
Mi sia consentito manifestare la mia viva gratitudine alla sezione palermitana dell’Associazione nazionale magistrati, al suo presidente e alla sua segretaria, e per loro tramite a tutti i magistrati del distretto, per l’entusiasmo e la dedizione con cui si sono adoperati all’organizzazione di questa importante assise.
E da ultimo ma non per ultimo un grande grazie va al Sovrintendente della Fondazione Teatro Massimo, maestro Marco Betta, per averci consentito di fruire della bellezza e della magnificenza di questo luogo, splendida cornice per avviare i nostri lavori.
2. Il Congresso si accinge ad una discussione, che mi auguro feconda, sui tratti costitutivi dell’essere magistrato.
Interpretare la legge e rendere un giudizio imparziale sono l’in sé della funzione.
Tramontate alcune ingenue convinzioni ottocentesche, è assunto condiviso che l’interpretazione sia operazione intellettuale complessa, non riducibile a semplici sillogismi che facciano derivare la regola concreta da una norma astratta, che si vorrebbe chiara e facilmente leggibile, sì che il giudice possa essere un mero e asettico esecutore.
Ed è altrettanto incontestato che egli debba essere sottratto all’influenza dei poteri pubblici e da qualsiasi centro di potere anche privato, in modo che possa decidere il caso senza prendere pregiudizialmente parte per uno degli interessi in gioco.
Ciò non significa che non vi siano ampi margini per una discussione ricca su entrambi i versanti.
A parte alcune certezze intorno a nuclei concettuali forti, sono consistenti gli spazi per il confronto di posizioni.
3. Vi è una costante problematicità, e quindi attualità, delle questioni.
Le ragioni sono facilmente comprensibili.
Dall’affermazione che l’applicazione della legge non è attività meramente esecutiva, e quindi del tutto neutrale, non restano per ciò solo individuati lo spazio riservato all’interpretazione ed i suoi limiti.
E dal riconoscimento del valore della imparzialità, e quindi della necessità di un disinteresse del singolo magistrato per l’oggetto del processo, non deriva la specifica indicazione di quali possano essere i fatti e i comportamenti, soprattutto extraprocessuali, incidenti sulla imparzialità del giudizio.
In più, non va trascurato il nesso tra interpretazione e imparzialità per così dire percepita.
Accade che da più parti ci si interroghi se e in qual misura gli spazi di discrezionalità concessi da un testo privo di puntualità prescrittiva siano riempiti per mezzo di opzioni valoriali del singolo decidente.
Basta allora scrostare di un po’ la superficie per vedere quanto di controverso si agiti ancora intorno alle colonne portanti della giurisdizione.
4. L’opzione congressuale è attuale anche per un complementare ordine di considerazioni, che danno conto di come non possano restare fuori dallo spettro di esame i non pochi dati di novità che oggi incidono sul mondo della giustizia.
Una riflessione di tal tipo non si sovrappone ai dibattiti convegnistici che rivelano l’interesse continuo su questi stessi temi della dottrina, anche di matrice giurisprudenziale e forense.
L’intento è di misurarsi con le implicazioni politiche della discussione, averne compiuta consapevolezza per meglio comprendere il contesto in cui la giurisdizione si trova ad operare, a cogliere le ragioni profonde di polemiche che investono l’esercizio della giurisdizione e che non si spiegano soltanto sulla base di quel che viene detto nel contingente momento di attenzione mediatica.
5. Accolta questa prospettiva, che non accantona l’esame dei nodi tecnici e dei profili di più stretta giuridicità, è utile indietreggiare di qualche passo dal quadro che anche le novità dell’ultimo periodo vanno componendo.
Si riesce a scorgere in tal modo una linea di tendenza che attraversa il tempo presente con maggiore incisività, una direttrice in cui sembrano naturalmente collocarsi, ora per dichiarata provenienza ora per successiva attrazione, iniziative legislative, dichiarazioni e prese di posizione di esponenti autorevoli del mondo politico, e, sia pure su altro piano, il raffinato dibattito scientifico sulla natura e sui limiti dell’interpretazione.
Al di là dei momenti in cui il fenomeno si palesa con franche prese di posizione e la constatazione tiene luogo di una mera percezione, si coglie in più occasioni una spinta alla ridefinizione in senso restrittivo dei confini entro cui la giurisdizione può esprimersi e può far uso degli strumenti propri del suo agire.
L’idea sottesa a più voci critiche è che progressivamente la giurisdizione abbia accresciuto il proprio ruolo finendo con l’essere, invece che fattore di stabilizzazione e di ordinata risoluzione dei conflitti, causa o concausa di quella instabilità e precarietà di necessari equilibri che segnano la società nel tempo presente.
6. Il Congresso è stato preceduto da ben due Assemblee straordinarie, convocate lo scorso anno a distanza di qualche mese l’una dall’altra sull’onda della diffusa preoccupazione insinuatasi tra i magistrati per effetto:
- prima, di una iniziativa disciplinare del Ministro della giustizia nei confronti di un collegio di una Corte di appello a cui si rimproverava – così è univocamente apparso – proprio l’interpretazione dei fatti e delle norme – e quindi l’attività intellettuale che per legge non può essere sindacata in sede disciplinare – nell’ambito di un provvedimento cautelare di sostituzione della misura della custodia carceraria con quella degli arresti domiciliari assunto in una procedura di estradizione passiva;
- poi, di dichiarazioni di esponenti della maggioranza di Governo di aspra critica nei confronti di una magistrata della sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale di Catania che, nel non convalidare i provvedimenti di trattenimento di alcuni migranti, ha ritenuto le disposizioni di un decreto-legge (n. 20 del 10 marzo 2023 – cd. decreto Cutro) non conformi al diritto dell’Unione europea.
Si badi, non una critica al provvedimento di non convalida fondata su argomenti volti a metterne in evidenza la discutibilità giuridica, ma una polemica nei confronti della magistrata, accusata di non essere imparziale in ragione della partecipazione, svariati anni prima, ad una manifestazione di protesta contro decisioni del Governo, espressione di altre maggioranze politiche, che avevano impedito alla nave con a bordo molti migranti tratti in salvo in mare di approdare nel porto catanese.
La partecipazione ad una manifestazione di piazza, che per anni era stata ignorata, è stata ritenuta la spia dell’esistenza di un pregiudizio, di una pregiudiziale avversione alle politiche governative di contenimento dell’immigrazione clandestina.
7. Come nella precedente, anche nell’ultima occasione è venuto in rilievo il timore di un progressivo indebolimento dei presìdi culturali che dovrebbero inibire, contenere, la pretesa delle maggioranze di governo che decisioni di tribunali e corti non contrastino o addirittura si adeguino ai loro programmi e fini.
La nostra posizione, in entrambi gli episodi, è stata però ispirata dalla ricerca di un confronto e non dalla contrapposizione con la politica per rievocare fantasmi di un passato che non vogliamo ritorni ad inquinare il discorso sulla giustizia.
E con questo spirito abbiamo voluto un Congresso che sappia, da un lato, individuare le ragioni di una crisi di senso sull’essenza della giurisdizione che sembra investire, con diversità di toni e di ampiezza, molte delle democrazie liberali; e dall’altro, dipanare una questione complessa che tocca molto da vicino la vita dei magistrati.
Siamo qui anche per interrogarci su quale sia, di quale ampiezza e di quale incidenza sui diritti e sulle libertà del cittadino-magistrato, la proiezione deontologica di una libertà interpretativa che non si può seriamente vagheggiare di comprimere in nome di una semplicistica rievocazione del principio della separazione dei poteri, nutrito alle convinzioni settecentesche della giurisdizione come potere nullo.
8. Nelle relazioni illustrative di tre dei quattro disegni di legge di iniziativa parlamentare sulla cd. separazione delle carriere, che sono da tempo all’esame della Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, si scrive che l’intero mondo occidentale è attraversato da una crisi del diritto e del processo, perché vive il problema della eccessiva espansione del giudice, che ormai “governa con le proprie decisioni, non solo i nodi essenziali dei diritti e delle garanzie individuali, ma anche quelli dell’economia, dell’ambiente e dello sviluppo tecnologico, sostituendosi di fatto al ruolo che un tempo esercitava la politica” (AC nn. 23, 434, 824).
Il sommario riferimento a quel che accade oltre Italia sembra evocare le tensioni e i conflitti che stanno interessando la vita di altri Stati, entro e fuori dall’Unione europea.
Sono stati coniati nuovi termini e nuove espressioni per indicare l’asserito dominio del giudiziario: “governo dei giudici”, “giudizializzazione” della vita pubblica, “giuristocrazia”, tutti diretti a manifestare una crescente insofferenza verso una tecnocrazia delle regole che sopravanzerebbe il governo della politica.
Si pensi a quel che è accaduto in Israele, dove la recente riforma della giustizia, che ha scatenato imponenti proteste, è stata ispirata dalla volontà di limitare i poteri della Corte suprema e di ristabilire un diverso rapporto con il potere legislativo e quello esecutivo, vietando il controllo di ragionevolezza dei provvedimenti d e limitando fortemente la possibilità di annullamento delle leggi ritenute in contrasto con le cd. leggi fondamentali.
E, ancora, a ciò che è avvenuto all’interno dell’Unione europea, in Polonia e in Ungheria. I sistemi normativi di entrambi questi Paesi sono stati posti sotto osservazione ad opera degli organismi dell’Unione anche per l’inadeguatezza nell’assicurare una effettiva indipendenza del potere giudiziario.
Sia chiaro!
Non intendo accreditare impropri parallelismi e indulgere in eccentriche assimilazioni.
Ma quel che avviene in una importante democrazia di stampo occidentale come Israele e nello spazio comune europeo può essere eletto a sintomo della difficoltà che, al di là delle specificità dei singoli Paesi, si sconta nel rinvenire una condivisione su quale debba essere il grado di effettività dello Stato di diritto – solennemente proclamato nel Trattato dell’Unione (articoli 2 e 7) – sotto il profilo della indipendenza e dell’ambito di azione del potere giudiziario, che sia compatibile con il mantenimento in capo agli organi della rappresentanza della prerogativa di fissare i fini dell’azione e di poter contare sulle concrete condizioni per raggiungerli.
9. Questa difficoltà lambisce il discorso pubblico del nostro Paese.
Si denuncia l’espansione del giudiziario collegandolo più o meno dichiaratamente ad una pretesa egemonica della magistratura, che sperimenterebbe da tempo una libertà di azione conquistata a scapito della legge.
Si trascura però di considerare che l’enfatizzazione del giudiziario potrebbe essere in buona misura figlia della incapacità della politica latamente intesa, che è propria del nostro tempo, di coinvolgere e di includere ampi strati della società nella definizione di progetti collettivi e di realizzazione di fini comuni e condivisi.
Se i circuiti della politica hanno perso gran parte della loro capacità inclusiva, se l’impegno collettivo per la costruzione del futuro della comunità non è più un potente fattore di aggregazione, è inevitabile che ci si ritragga sempre più in una dimensione privata, che si ricerchino nelle aule di giustizia le risposte alle domande che nei luoghi tradizionali dell’agire politico non si riesce più a formulare.
La via per il riequilibrio che si va cercando potrebbe non essere quella della compressione forzosa degli spazi di giurisdizione; si potrebbe scoprire che in tal modo si raggiungerebbe il risultato non già di rimettere “ogni cosa a suo posto”, secondo l’efficace titolo di un recente interessante studio di un grande giurista (LUCIANI) ma, forse, di indurre maggiore instabilità sociale per il disconoscimento, ad interessi che reclamano visibilità e tutela, di ogni istanza di rappresentazione nei luoghi istituzionali.
10. Per restare ancorati a quel che ci riguarda direttamente, il tentativo di ridurre l’incidenza del giudiziario si scorge in plurimi segnali.
La “paura della firma” di amministratori e funzionari pubblici, invece che indurre ad una migliore tipizzazione delle fattispecie di responsabilità, sta portando alla eliminazione di una ipotesi criminosa – l’abuso di ufficio – secondo una direttrice che si stenta a ricondurre nell’alveo di una concezione liberale, che vorrebbe una rafforzata tutela delle libertà individuali di fronte alle angherie dei detentori dei pubblici poteri.
Lo stesso può dirsi in riguardo alla spinta, che non si arresta, al mantenimento di moduli emergenziali, escogitati per affrontare la pandemia da Covid-19 e incentrati sull’allentamento dell’area del controllo e quindi sull’abbassamento dei livelli di responsabilità, ancora una volta dei detentori di pubblici poteri.
Lo “scudo erariale”, ossia la limitazione della responsabilità di amministratori pubblici ai casi di dolo e condotte omissive gravemente colpose, introdotto nel 2020 in piena emergenza pandemica, è stato di recente ulteriormente prorogato, con il decreto milleproroghe, sino al 31 dicembre 2024 –il termine inizialmente fissato al 31 luglio 2021 era stato già prorogato al 30 giugno 2024 – e la Corte dei conti ha sollevato questione di legittimità costituzionale, evidenziando l’irragionevolezza della norma “nell’attuale sistema di pesi e contrappesi fondato sull’inscindibile binomio potere/responsabilità tipico anche del diritto euro-unitario”.
Non siamo per questa parte di fronte ad una misura inedita.
La logica degli scudi si era già concretizzata in più occasioni, ma se essa si combina all’idea che un pieno esplicarsi della funzione giudiziaria può non essere funzionale al recupero di efficienza della macchina amministrativa e mediatamente ad una maggiore vitalità dell’economia, allora prende corpo una concezione del giudiziario come potere scomodo.
Ancora.
Quale altra plausibile ragione può assegnarsi al disegno – coltivato nell’ambito dei progetti di revisione costituzionale per la separazione delle carriere – di alterazione dell’attuale rapporto di proporzione numerica tra magistrati e laici nella composizione del Consiglio superiore della magistratura, anzi nei due Consigli superiori che si avranno una volta separato il pubblico ministero dalla magistratura giudicante, se non l’indebolimento della presenza del giudiziario nel settore nevralgico deputato a quella delicatissima attività che, con felice espressione, è indicata come di “amministrazione della giurisdizione”?
Non persuade, come ratio del progetto di revisione, l’intento di diminuire la cifra di politicità dell’organo di cd. governo autonomo, se perseguito, con intrinseca irrazionalità, per mezzo di un aumento della quota della componente di nomina politica.
Lo stesso progetto di separazione delle carriere, coltivato con ostinazione pur dopo che la separazione delle funzioni è stata da ultimo portata alla sua massima espansione con buona pace del favor per la pluralità delle esperienze professionali, reca con sé il germe dell’indebolimento della giurisdizione, almeno quella penale, nel suo complesso.
Essa troverà compimento una volta che il pubblico ministero, separato dalla giurisdizione e collocato in un ideale ma ad oggi sconosciuto spazio di autonomia e di contestuale estraneità all’area dei tradizionali poteri dello Stato, sarà in breve attratto nel raggio di influenza del potere esecutivo, che mal tollera di non poter includere l’azione penale nei programmi di governo.
La prospettiva è tutt’altro che una fantasia spesa ad arte per contrastare quel progetto.
Proprio perché molte democrazie occidentali conoscono la dipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo, sterilizzata nei suoi effetti distorsivi, nella maggior parte dei casi, da culture politiche e architetture istituzionali proprie di quei Paesi, la parabola di un riassetto istituzionale innescato dalla revisione costituzionale non sarà condizionabile nella sua traiettoria dalle dichiarazioni di chi oggi, alfiere della separazione, assicura e rassicura sulla piena indipendenza del pubblico ministero di domani.
11. La rivisitazione in senso riduttivo del ruolo del giudiziario dovrebbe rispondere a due grandi bisogni.
Il mantenimento di una netta separazione tra i poteri dello Stato, dovendosi evitare che il giudice si appropri della prerogativa di apprestare soluzioni che implichino apprezzamenti e scelte di natura politica, con il conseguente scolorimento di imparzialità, anche solo della sua apparenza.
La tutela del diritto dei cittadini di poter contare sulla sufficiente prevedibilità delle decisioni di tribunali e corti, possibile a condizione che l’interpretazione delle norme sia fedele al testo delle disposizioni e non ci siano spazi di eccessiva discrezionalità nella individuazione delle regole del caso concreto, tale da aprire alla creazione per via giurisprudenziale del diritto, giocoforza priva dei caratteri di astrattezza e generalità.
Si può dire, tentando una semplificazione riassuntiva, che sono ragioni che attengono sia alla dimensione del potere che a quella del servizio.
Le direttrici in cui sembra incanalarsi il discorso sulla giustizia, benché connotate da nuclei di valore meritevoli di considerazione, potrebbero risultare dissonanti rispetto al cammino che fu tracciato nel secolo scorso anche grazie agli sforzi e all’impegno della magistratura italiana.
Se assecondate perdendo di vista il senso progressista di quel movimento culturale che si sviluppò intorno alla prima parte della Costituzione, farebbero correre il rischio di un arretramento di tutele e di garanzie.
Sta qui l’utilità che la magistratura torni a ragionare sul rapporto con la legge, sulla soggezione alla legge, principio fondativo della sua autonomia e della sua indipendenza.
E che lo faccia da protagonista con un contributo di cultura istituzionale e di esperienze professionali senza restate spettatrice muta di un processo e di un dibattito che, pur movendo da premesse diverse, la chiamano direttamente in causa.
12. C’è un evento che individua una conquista culturale storica per la nostra giurisdizione: la scoperta nell’attività interpretativa del giudice comune del rapporto diretto con la Costituzione, da cui prese piede una nuova concezione del rapporto di soggezione.
Mi riferisco al 12° Congresso dell’Associazione nazionale magistrati, che si tenne a Brescia-Gardone Riviera nel settembre 1965 e fu dedicato a “Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione”.
Quel Congresso si concluse con una mozione unitaria in cui si individuarono, come compiti del giudice, l’applicazione diretta delle norme costituzionali, ove tecnicamente possibile; il rinvio alla Corte costituzionale delle leggi non riconducibili per via interpretativa al dettato costituzionale; il dovere quindi di interpretazione conforme a Costituzione di tutte le leggi.
Approdo di quel fecondo percorso fu che ai giudici competeva di attuare l’indirizzo politico costituzionale, ovviamente nei limiti e con l’armamentario tipico del giudiziario.
Le ricadute di quel modo nuovo di intendere il rapporto di soggezione e quindi, in ultima istanza, il legame del giudice con la società furono colte dall’esterno, a volte con accenti di forte critica.
Il salto di qualità rispetto ad un modello strettamente funzionariale di magistrato fu visto da taluno come una pericolosa ingerenza del magistrato nella sfera riservata alla politica, nei termini dell’assunzione di un ruolo e di una funzione propri degli organi politicamente responsabili.
La relazione diretta con la Costituzione, non sempre e non necessariamente mediata dalla soluzione legislativa, costituì al contempo fattore di potenziamento dei risultati perseguibili per via interpretativa e condizione per la rilegittimazione in senso autenticamente professionale della figura del magistrato.
La grande novità fu costituita dal mutamento di paradigma, con l’irrompere del pluralismo dei principi e la conseguente necessità del loro bilanciamento, all’interno di uno spazio, quello dell’interpretazione, fino ad allora conformato in modo apparentemente rassicurante agli insegnamenti della scuola dell’esegesi.
13. Mutò da allora il tradizionale modo di intendere il ruolo del giudice e si iniziò a porre la questione della politicizzazione in termini anche di aperta critica, per la temuta compromissione del principio fondante della separazione dei poteri.
Non è un caso che a qualche anno di distanza da quel Congresso fu presentato alla Camera dei deputati un disegno di legge sulla premessa che la politica e la contestazione, intesa questa come il confronto vivace che all’interno dell’Associazione nazionale si sviluppava proprio sul ruolo del magistrato, avevano fatto ingresso nella magistratura.
Per contrastare quanto denunciato, ossia che la magistratura si avviava così “a diventare un centro di potere, strumento di scelte politiche e di partiti”, due deputati, gli onorevoli Manco e Romeo, entrambi del gruppo del Movimento sociale italiano, proposero l’introduzione del divieto non soltanto di iscrizione a partiti politici ma anche ad associazioni di categoria, quindi all’Associazione nazionale magistrati e ai gruppi che nella sua lunga storia ne hanno animato e ancora ne animano fecondamente la vita e il dibattito interno, volendone decretare, sia pure per via indiretta, lo scioglimento.
Accade oggi che, sull’onda – ancora una volta – dell’accusa alla magistratura di assumere indebitamente un ruolo politico, ritorna con forza l’incomprensione per quella cultura della giurisdizione e dei diritti che conquistò il suo spazio nel momento di maggior forza dello Stato sociale di diritto.
E, allora, che fare?
14. Nella spiccata diversità di contesto va anzitutto riconosciuto che la forza della legge, la sua presa sulla realtà giudiziaria non è scemata con l’avvento dello Stato costituzionale, seppure essa attraversi una crisi dovuta a più fattori, per la ricorrente scarsa chiarezza dei suoi enunciati linguistici, per l’oggettiva difficoltà nell’assicurare coerenti coordinamenti tra la molteplicità dei testi normativi che si stratificano nel tempo.
In ultima istanza, anche per le difficoltà delle maggioranze politiche nella costruzione di prescrizioni sufficientemente univoche in ragione del tributo pagato a logiche compromissorie conseguenti alla carenza di omogeneità nelle scelte di valore e conseguentemente nelle visioni programmatiche.
Detto questo, e ricordata la perdita non soltanto della primazia nella collocazione tra le fonti quanto della esclusività dell’ordine gerarchico affiancato dal criterio ordinativo della competenza per l’ingresso nell’ordinamento nazionale del diritto eurounitario con efficacia diretta (regolamenti e direttive dettagliate), occorre confermarsi nella consapevolezza che il vincolo di soggezione alla legge conserva integra la sua centralità come condizione ineludibile per l’indipendenza della magistratura e quindi per la tenuta dello Stato di diritto.
Le mura della legge non segnano soltanto il confine che il giudice non può valicare nel dare e fare giustizia, ma sono i bastioni che proteggono e danno effettività alla sua indipendenza.
La soggezione, a cui nessuno intende sottrarsi, si invera però in un impegno interpretativo condotto facendo uso di tutte le tecniche e gli strumenti che la stessa legge offre, dal criterio logico, a quello teleologico, a quello sistematico, saggiando della norma la conformità costituzionale e convenzionale.
La posizione della giurisprudenza è chiara e inequivoca.
Si è detto, e non vi sono deduzioni contrarie o diverse, che l’interpretazione dei giudici si limita a portare alla luce un significato precettivo interamente contenuto nel significante, nel testo normativo; e che essa non può superare i limiti di tolleranza ed elasticità dell’enunciato linguistico, quindi del testo di legge.
Senza scardinare “i cancelli delle parole” (IRTI), il giudice non può che interpretare la singola disposizione cogliendo le relazioni con le altre, nella rete sistematica che le tiene insieme.
In tal modo si è ben lontani dalla produzione di norme e si resta a buon diritto nel campo proprio dell’interprete.
Come è stato autorevolmente affermato, “soltanto il fraintendimento della disposizione… frutto di una lettura … che prescinde dagli strumenti interpretativi rivolti a farne emergere il significato, si traduce nella creazione di una norma…altrimenti inesistente” (S. U. n. 9659 del 2023).
E che il testo normativo sia e debba essere punto di partenza e punto di arrivo dell’interpretazione (IRTI) è affermazione che non riceve smentita nelle sentenze dei giudici italiani.
La fallacia di molte critiche che su questo terreno si muovono è allora nel non comprendere:
- che la discutibilità di un risultato, la opinabilità di una soluzione, che magari non è quella da taluno o dai più attesa, non è indicativa di una elusione della legge, meno che mai di un attentato al principio della separazione dei poteri;
- e che la fedeltà ad essa non si risolve nella cocciuta e acritica adesione al dato letterale della disposizione e ancor meno nel tentativo di individuare in quel testo la volontà del contingente legislatore, perché la soggezione è alla legge, come essa si oggettivizza nell’ordinamento, e a nessun altro.
15. Queste puntualizzazioni non escludono l’utilità di una aggiornata considerazione di quali siano le implicazioni del principio di soggezione alla legge.
La rivendicazione del potere di interpretazione esercitato con il diretto parametro della Costituzione e del diritto convenzionale è opzione culturalmente distante dalla pretesa di creare norme nel caso concreto.
Non va poi dimenticato che le norme non hanno tutte la stessa struttura: vi sono le norme-regole e le norme-principi e quelle che, per meglio governare la complessità dei fenomeni, ricorrono a clausole generali, affidando al giudice, all’interprete, secondo un modulo cooperativo fondato sulla fiducia, il compito faticoso di adattare la regola ai mutamenti sociali.
Per tutte queste ipotesi al giudice spetta di operare una scelta, e a questo punto le domande si fanno insistenti.
Nel caso dell’interpretazione conforme, tra più soluzioni compatibili, quale è quella da privilegiare?
Quella a maggior tasso di conformità o quella che, magari più distante dalla Costituzione ma non per questo tacciabile di contrarietà, è più vicina al testo da interpretare?
In nome dell’indirizzo costituzionale, il giudice è abilitato a mettere da canto un programma legislativo per così dire di minore intensità costituzionale?
Se il richiamo al testo appare cogente, in che modo esso si combina con l’esigenza di assicurare una lettura sistematicamente coerente della disposizione, di armonizzarla all’interno di un sistema formato da norme le cui disposizioni non hanno minor forza e vincolatività di quella al cui testo si vorrebbe riservare una (maggiore) efficacia attrattiva?
Vi è spazio per una applicazione diretta della Costituzione, tenendo distinta l’applicazione dall’attuazione che, come è stato detto (LUCIANI), è riservata al legislatore a cui soltanto spetta di definire tempi e modalità del programma di inveramento costituzionale?
16. Al riconoscimento di margini più o meno ampi per scelte di concretizzazione e modellamento del precetto segue il timore che l’imparzialità sia destinata a soccombere.
Su questo delicato versante conviene tenere a mente, a mo’ di premessa, l’autorevole avvertimento che l’idea del giudice privo di idee e di passioni non ha mai trovato riscontro nella realtà (SILVESTRI) e che la dichiarata estraneità alla dialettica culturale e politica nella società servì per lungo tempo a mascherare l’adesione dei magistrati, di molti di loro, al blocco storico-politico dominante e la loro dipendenza dal potere politico.
Nel cono d’ombra della ostentata riservatezza e della proclamata neutralità alligna a volte una faziosità che non si riscontra in chi non fa mistero delle sue convinzioni ma è professionalmente attrezzato per saper trascendere, nella decisione, le proprie opzioni di valore affrancandosi dalle personali concezioni in modo da realizzare il grado massimo di indipendenza, quella da se stesso (SCODITTI)
Lungo questa direzione vanno valorizzate le potenzialità antagoniste del processo rispetto allo scivolamento verso l’arbitrario soggettivismo.
La rigorosa osservanza delle sue regole, il dovere di ascolto delle parti e soprattutto l’obbligo di rendere compiuta motivazione sono gli ostacoli che la trasparenza processuale pone per inibire il pericolo che il giudice e il suo patrimonio ideale siano metro della decisione.
17. Resta da indagare l’aspetto forse più problematico della imparzialità e della sua apparenza, come condizione di credibilità dell’istituzione giudiziaria, ossia il problema di come conciliarla con i diritti del magistrato- cittadino nella sua vita sociale e di relazione.
Conviene prendere le mosse dalle affermazioni della Corte costituzionale.
Con una prima pronuncia (sent. n. 224/2009) si è chiarito:
- che i magistrati godono degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino e che pertanto ben possono condividere un’idea politica e manifestare le proprie opzioni al riguardo;
- ma che le funzioni esercitate e la qualifica rivestita non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale.
Con una successiva decisione (sent. n. 170 del 2018) si è ulteriormente precisato che i principi di indipendenza e di imparzialità vanno tutelati non soltanto sul pano dell’esplicazione delle funzioni giudiziarie ma anche “quali criteri ispiratori di regole deontologiche da osservarsi in ogni comportamento di rilievo pubblico, al fine di evitare che dell’indipendenza e imparzialità dei magistrati i cittadini possano fondatamente dubitare”.
Entra in gioco per tale via il profilo dell’etica professionale, su cui è naturale che una parola importante sia pronunciata dai magistrati che al codice deontologico devono prestare convinta adesione.
18. Questa messe di questioni, complesse ma di grande interesse, sarà resa nel prossimo futuro di poco rilievo dall’intelligenza artificiale?
Può immaginarsi una giustizia digitale sostitutiva, si può aspirare ad un giudice automatico, come è stato appellato (BARBERIS), che ci restituisca al potere nullo vagheggiato senza successo secoli addietro e per esso alla certezza del diritto senza ombra di parzialità?
L’interrogativo apre ad orizzonti ampi verso cui ci incamminiamo in molti con scarsa consapevolezza.
Il Congresso servirà almeno ad accendere una spia, a indurci a considerare se il giudizio possa strutturarsi, in nome della certezza, secondo gli schemi dell’operazione algoritmica; o se, di contro, la struttura dialogica dell’esperienza giuridica e specificamente del momento processuale sia intimamente refrattaria allo schema algoritmico.
Come già acutamente osservato (ROMANO) il dialogo, anche quello processuale, non è trattabile sulla base di meccanismi computazionali, perché “non è anticipabile nel futuro” siccome si svolge nella “formazione del senso, aperta alla molteplicità dei contributi … dei dialoganti” (ROMANO).
Deve allora, a mio giudizio, salutarsi con favore quella disposizione che compare nel recente disegno di legge di iniziativa governativa in materia di intelligenza artificiale che ha cura di precisare che “è sempre riservata al magistrato la decisione sulla interpretazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sulla adozione di ogni provvedimento”, potendo i sistemi di intelligenza artificiale essere utilizzati esclusivamente per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario (Art. 14).
19. Concludo con l’auspicio che una riflessione ampia, che involge anzitutto il rapporto con gli altri poteri dello Stato, non attiri sul Congresso l’usurata critica della politicizzazione, che si rinnova con puntualità quando la voce e l’azione dell’Associazione nazionale magistrati hanno la pretesa di uscir fuori dall’ambito, pur nobile, della difesa degli interessi di tipo impiegatizio.
Non appena l’orizzonte si amplia, nel tentativo di prendere parola su temi che interessano il mondo della giustizia anche più di qualche aspetto della carriera intesa in senso burocratico, viene revocata in dubbio la legittimazione ad intervenire, gettando l’ombra pesante della faziosità.
Va sgombrato il campo da questa ipoteca, liberandoci dal sospetto, maliziosamente coltivato, che i magistrati che intervengono nel pubblico dibattito su temi che ineriscono alla giustizia siano politicizzati e quindi inaffidabili.
Il termine “politica”, con i suoi derivati, non può divenire un dispositivo di espulsione dalla sfera pubblica, perché una democrazia partecipativa non può che arricchirsi del contributo di una categoria che di giustizia e di giurisdizione può dire a ragion veduta.
L’intervento argomentato nella discussione non porta con sé il tentativo obliquo di interferire nell’esercizio del potere di decisione che spetta ad altri; può invece consentire decisioni e soluzioni di migliore qualità, di maggiore avvedutezza. È l’esercizio, oltre che di un diritto, di un dovere, che direi di natura civica, di contribuzione al benessere della comunità di cui si è parte viva.
Vogliamo poter dire, e sentire ancora, le stesse parole che Pericle rivolse agli ateniesi, quando con orgoglio affermava che ad Atene coloro che non si occupavano di politica erano considerati non persone tranquille ma buoni a nulla; e che ad Atene la discussione sugli affari della città non era ritenuta un ostacolo sulla via della democrazia.
Di quella idea di democrazia vogliamo continuare a sentirci eredi.
Con vivo compiacimento dichiaro aperto il 36° Congresso nazionale.
Buon lavoro!
* Presidente Associazione Nazionale Magistrati
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