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Bosnia, la terra del fallimento dell’Occidente

Pierluigi Ermini il . Diritti, Guerre, Informazione, Internazionale, Memoria, Società

La strada che attraversa la Bosnia e l’Erzegovina da Srebrenica quasi al confine con la Serbia fino a dopo Mostar, vicino al confine con la Croazia è di rara bellezza.

Attraverso montagne le cui cime sono ancora innevate, si alternano grandi fiumi e laghi, un verde affascinante, tra boschi, prati e colline.

E ogni tanto ecco apparire un piccolo borgo o paese arroccato sulle alture con la sua moschea, una chiesa cattolica e una chiesa ortodossa.

Qui nel cuore dell’Europa, percorrendo questa lunga strada che dalle montagne conduce al mare, fermandosi nelle sue bellissime città o paesi, parlando con le persone, appare chiaro come dalla fine della Jugoslavia fino alle soglie del 2000, l’occidente abbia tradito uno dei suoi valori principali: l’integrazione tra culture diverse.

Negli anni dal 1991 al 1995 si è perpetrata una guerra, condotta principalmente da paesi cristiani (la Serbia di tradizione ortodossa e la Croazia di tradizione cattolica) contro la parte di popolazione bosniaca di tradizione musulmana.

Una popolazione quella bosniacca che professa la religione musulmana di origine sunnita, quindi molto meno integralista di quella sciita, che invece fa dell’ortodossia il suo stile di vita.

In questa terra dell’Europa, la tradizione musulmana sunnita, nei suoi quasi 4 secoli di presenza, si era in parte uniformata a uno stile di vita più europeo, avendo attraversato diverse fasi storiche come l’appartenenza a regni diversi, dall’impero ottomano a quello asburgico, fino alla prima e seconda Jugoslavia.

Esperienze che hanno dato vita a una forma molto moderata di tradizioni musulmane che se tutelate avrebbero permesso anche a noi cosiddetti popoli occidentali di avere un atteggiamento e un pensiero diverso verso questa cultura.

Una scelta politica che avrebbe potuto portare a un atteggiamento meno ostile tra le diverse culture, a una maggiore comprensione reciproca, a una visione diversa anche del nostro essere oggi europei con una forte spinta nazionalistica impauriti da tutto ciò che è diverso dal nostro modo di vivere.

Una realtà che era già parte della vita quotidiana di coloro che vivevano in questa regione, a Sarajevo o a Mostar, e nelle piccole e tante comunità che si incrociano lungo la strada che attraversa la Bosnia.

Ne sono una dimostrazione i diversi luoghi di culto che qui convivevano da secoli, fino a quando, durante la guerra dei Balcani dal 1991 al 1995, tante moschee non furono distrutte dalle bombe, insieme ai ponti e alle parti musulmane delle città.

Oppure pensare che in una città come Mostar prima del 1991 si era raggiunta la percentuale di circa il 30% di matrimoni misti che sono la più concreta dimostrazione di come un processo di integrazione fosse già in corso da tempo.

E capire come a Sarajevo per secoli si era lavorato non per il dominio di una cultura sull’altra, ma per aggiungere una diversa cultura alle altre, senza eliminare niente, ma aggiungendo.

È così che alla parte della città musulmana si è poi aggiunta la parte asburgica e poi la parte socialista di Tito dando una struttura anche urbanistica particolare a una città che si è allungata lungo il suo fiume nel corso dei secoli, senza che niente fosse distrutto.

Questa la bellezza di Sarajevo, fino a quando le bombe e i mortai serbi non hanno cercato di distruggere una parte di questa meravigliosa esperienza umana.

Ed è quello che emerge parlando con le diverse persone incontrate a Srebrenica, a Sarajevo, a Mostar che non fanno mai cenno a divisioni tra la popolazione,  ma sempre a una cattiva politica che ha imposto alla gente determinate scelte.

E qui sta il fallimento della comunità internazionale, soprattutto occidentale che non ha saputo impedire che a Srebrenica in pochi giorni le milizie serbe uccidessero più di 8.000 uomini musulmani, che per oltre 3 anni le stesse milizie serbe tenessero sotto assedio Sarajevo, e che le truppe croate distruggessero buona parte della zona musulmana della città di Mostar, e il famoso ponte vecchio, che, costruito dagli ottomani, per secoli aveva unito la parte musulmana con quella cristiana.

Seguendo quella strada che attraversa la Bosnia e l’Erzegovina, e dove domina la bellezza della natura, oggi le moschee sono tornate ad animare la vita di borghi, paesi e città,  ma spesso sorgono là dove si sono perpetrati eccidi, stragi, fucilazioni, compiute nella stragrande maggioranza dei casi da cristiani.

Tante diverse sensazioni si sono intrecciate lungo questo viaggio.

Al fascino di culture diverse che qui si sono incontrate e mischiate, alla bellezza di una natura ancora in gran parte incontaminata e dominante, si contrappone il dispiacere di un’occasione persa per aver impedito che alla proclamazione della indipendenza dello stato di Bosnia ed Erzegovina, avvenuta nel marzo del 1992, fosse data la necessaria concreta tutela da parte della comunità internazionale.

Quelle moschee e chiese sparse su colli, montagne, borghi, quei ponti che uniscono le diverse parti di una città,  quelle donne e uomini che nonostante anni di guerra e di violenza continuano a parlarsi e a vivere insieme, sono lì a dimostrare il fallimento di chi come noi parla e scrive di valori e di integrazione, ma poi non li sa difendere.

Così il viaggio è anche un fare i conti con i rimpianti di ciò che poteva essere e non è stato.

Di un passato recente di morte e distruzione che se impedito forse avrebbe impedito anche altre guerre e altre violenze e permesso alla nostra Europa, di cui la Bosnia Erzefovina fa parte da un punto di vista geografico, di essere più vera anche da un punto di vista storico e sociale.

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