Tra etica e imparzialità: il passato ci insegni ad affrontare le sfide del futuro
Un contributo al dibattito congressuale.
1. La gravità della questione morale in magistratura ha indotto il Presidente della Repubblica a censurare la «modestia etica» rivelata dai noti scandali del 2019.
Di quella crisi l’associazionismo giudiziario non ha fatto il volano per un’autentica autocritica, funzionale a dare istruzioni per il futuro, preferendo – piuttosto – affidare agli organi disciplinari interni le valutazioni sulle responsabilità individuali. Lo sguardo si è ristretto alla caccia al singolo colpevole, al punto da impedire agli associati di ricevere adeguate informazioni su quanto emerso in sede disciplinare. Non è stato così possibile comprendere le ragioni sistemiche della crisi e avviare un confronto interno che fungesse da base per un dibattito consapevole sulla autoriforma della magistratura. Questa, infatti, non si alimenta solo di interventi legislativi, ma è determinata anche dalla percezione che la magistratura ha di sé e del suo ruolo. L’esperienza ci ha insegnato come allo statuto formale (normativo) del magistrato, partecipa anche uno statuto materiale, arricchito dal dibattito associativo, che si esprime nell’idem sentire di ciascuno, nel più ampio contesto dello ius dicere.
Proprio la mancanza di un dibattito consapevole sulla crisi ha portato anche voci autorevoli della magistratura a sostenere che il magistrato non debba avere una “propria” etica, o comunque non debba manifestarla né attingere a essa come fonte ̶ insieme alla legge e al ragionamento interpretativo ̶ del proprio libero convincimento, perché questo condurrebbe a uno “stato etico”.
2. È evidente come il termine “etica” sia stato utilizzato in maniera diversa dal Presidente del Repubblica e nel più recente dibattito interno alla magistratura, nel quale è stata postulata non solo l’imparzialità del magistrato ma anche una sorta di sua separazione dal corpo sociale a tutela della sua presunta purezza e mirando, piuttosto, all’appiattimento etico e alla normalizzazione del corpo giudiziario su un piano di indifferenza rispetto ai valori sociali e politici espressi dalla nostra Costituzione.
Non condividiamo l’idea, pur autorevolmente espressa, per cui qualora il magistrato coltivi, nell’esercizio delle sue funzioni, preoccupazioni etiche, ciò potrebbe condurrebbe a uno “stato etico”, in cui il potere giudiziario andrebbe a espropriare la funzione di indirizzo politico (di cui è investito solo il legislatore).
Si tratta di una mistificazione storica, giacché gli “stati etici” (come i regimi autoritari del Novecento) furono anzi caratterizzati da una feroce repressione del dissenso perseguita con l’abolizione di ogni organo indipendente, primo fra tutti il corpo giudiziario, ridotto nei totalitarismi del passato – ma, si badi bene, anche nelle cosiddette “democrature” del presente – a mero esecutore della volontà politica.
La natura della giurisdizione finisce così con il trasformare anche quella del diritto che, in questi contesti, perde ogni legame con la giustizia per diventare mera calligrafia dei rapporti di forza esistenti, di cui la magistratura deve essere fedele e acritico amanuense.
E infatti, storicamente, non sono state le preoccupazioni etiche dei magistrati, ma è stata proprio l’idea che solo il potere politico e l’autorità che esso esprime detengano il monopolio del diritto, a trasformare parte degli apparati pubblici, giudici compresi, in complici ed esecutori dei progetti bellici e liberticidi perseguiti dagli “stati etici”.
3. Riteniamo, pertanto, che respingere una simile visione sia il primo dovere etico di ciascun magistrato.
Oggi, proprio in conseguenza delle tragiche esperienze del passato, quel dovere può e deve fondarsi sul diritto positivo. Oggi più di ieri la tutela dei diritti di libertà e dei diritti civili e sociali non è affidata alle sole cure del legislatore contingente: le Carte costituzionali, le Carte dei diritti e la riflessione sociale e filosofica ci insegnano che esistono sfere di diritti intangibili, sottratti anche alle determinazioni dei legislatori e che devono essere tutelati, al fine di una loro attuazione concreta, anche ove la contingente maggioranza politica sia diversamente orientata.
Nelle sfide che ci riserva il futuro assume perciò cruciale rilievo – e costituisce dovere etico del magistrato – la gelosa e caparbia tutela dello statuto costituzionale di indipendenza esterna della magistratura, funzionale alla garanzia dei diritti fondamentali, in quanto proprio tale rivendicazione di indipendenza riflette e invera la consapevolezza e la volontà del Legislatore costituente, di immunizzare la magistratura dal controllo politico proprio per farne, in ogni contingenza storica, potere di bilanciamento e di contrasto agli autoritarismi.
Per questo crediamo, da una parte, che la rivendicazione dell’indipendenza esterna come dovere etico di ciascun magistrato, in funzione della tutela dei diritti, sia l’anticorpo essenziale contro i rischi di deriva autoritaria; e, dall’altra parte, che sia frutto di un artificio retorico ed elusivo degli equilibri costituzionali, il descrivere e rappresentare tale rivendicazione come espressione della volontà degli attori della giurisdizione di sostituirsi ai corpi politici.
4. La conseguenza logica e assiologica di questo ragionamento è che il magistrato ha il dovere, e prima ancora la necessità, di provare a comprendere la realtà sociale in cui si innestano le situazioni della vita che chiedono tutela alla giurisdizione. Spesso si sente ripetere, a più voci, che “i magistrati accertano fatti, non contrastano fenomeni”. Si tratta di un’affermazione condivisibile per la parte in cui pone l’accento sulla funzione cognitiva e accertativa della giurisdizione, ma si tratta anche di un’affermazione insidiosa, ove con essa si intenda ridurre la magistratura a una burocrazia obbediente e incapace di mantenere una vigile attenzione sulla realtà sociale e sulla portata dei diritti che in essa emergono.
È in questa prospettiva che – tra i doveri insiti nello statuto materiale del magistrato – ci pare rientri quello di coltivare lo sguardo sui fenomeni sociali: comprendere i sistemi criminali, leggere nel profondo le asimmetrie di potere che si determinano nelle strutture economiche, sociali e familiari, generando o perpetuando situazioni di vulnerabilità e di sopraffazione; vedere i nuovi bisogni di tutela che il progresso tecnologico e il mutamento climatico portano all’attenzione della giurisdizione; cercare di intuire quali risposte possa dare – se ne può dare – la giurisdizione a fenomeni epocali come quello migratorio; e, sempre, interrogarsi su un contenuto minimo e mai coercibile della dignità umana.
In questo esercizio di attenzione alla [e comprensione della] realtà, ciascun magistrato deve essere autonomo e indipendente, ma non separato dalla società civile, proprio perché il magistrato è tanto più consapevole del suo ruolo quanto più è capace di abbandonare ogni tentazione di autoreferenzialità, e di ascoltare, invece, e di confrontarsi con ciò che gli sta attorno: le istanze sociali, il mondo della rappresentanza politica, l’Accademia e la riflessione scientifica, il mondo dell’associazionismo (giudiziario e non).
L’esercizio dello sguardo sulla realtà sociale e il costante confronto tra essa e le aspirazioni costituzionali non rappresentano affatto la rinuncia all’indipendenza, né costituiscono una volontà di affermazione di un’etica individuale del magistrato; si tratta, all’opposto, proprio del modo di adempiere al mandato costituzionale, che impegna la Repubblica a ridurre lo scarto tra diritti affermati e diritti tutelati. È questo il messaggio dell’articolo 3, comma 2, della Costituzione: l’impegno alla rimozione degli ostacoli che limitano «di fatto» la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana.
5. Sappiamo bene, tuttavia, che l’indipendenza esterna non è sufficiente ad assicurare che l’esercizio della funzione giudiziaria sia coerente con l’alto compito assegnato dalla Costituzione al corpo giudiziario. È necessario che il magistrato eserciti la giurisdizione sine spe ac metu.
La previsione costituzionale per cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni intende promuovere una figura di magistrato che – per l’appunto, sine spe ac metu – ha come unico interesse l’esercizio della giurisdizione e che, in esso, vede il più alto compito assegnato.
La cronaca ci dice quanto il corpo della magistratura si sia allontanato da questa visione costituzionale: le riforme legislative degli ultimi decenni hanno introdotto molteplici elementi di gerarchia interna al corpo giudiziario e hanno veicolato in esso un’idea di carrierismo che si pone in contraddizione con l’idea di magistratura orizzontale, che – in ogni luogo in cui è esercitata la giurisdizione – prova ad assolvere al mandato che la Costituzione assegna al corpo giudiziario.
Gli scandali del 2019, emersi nella gestione delle nomine da parte del CSM, ci dicono come gerarchia e carrierismo abbiano trasfigurato anche la fisionomia degli organi di governo autonomo della magistratura e dei gruppi che si muovono nell’associazionismo giudiziario.
Tassello essenziale dello statuto di indipendenza costituzionale del corpo della magistratura – e anch’essa dovere etico di ciascun magistrato – è dunque la ferma tutela dell’indipendenza interna di ciascuno, che va affermata in tutti i luoghi in cui il tema viene in rilievo: nella vita degli Uffici, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, nell’esercizio delle funzioni direttive o semi-direttive, così come nei luoghi in cui si esercita il governo autonomo della magistratura e in quelli in cui si vive l’associazionismo giudiziario. Questo non significa demonizzare gli incarichi direttivi, giacché siamo ben consapevoli degli oneri che derivano da un loro esercizio consapevolmente volto alla ricerca del difficile equilibrio tra la tutela dell’indipendenza e autonomia di ciascuno e le esigenze di garantire qualità nella tutela dei diritti ed efficienza nella produzione giudiziaria dell’Ufficio.
Tuttavia, abbiamo assistito alla creazione di carriere parallele che separano, di fatto, in classi la magistratura, in maniera non più tollerabile, a causa degli effetti nefasti che tali situazioni determinano sulla percezione di sé di ciascun magistrato, inquinandone lo statuto materiale e pregiudicandone autonomia ed indipendenza.
6. Auspichiamo pertanto che l’Associazione Nazionale Magistrati – nell’interrogarsi al prossimo Congresso sul tema: «Magistratura e legge, tra imparzialità e interpretazione» – voglia mettere al centro della riflessione la questione del binomio inscindibile che si dà tra esercizio della giurisdizione ed etica professionale del magistrato. La proposta che portiamo al confronto e al dibattito associativo è quella di riconoscere che l’etica professionale del magistrato si esprime nella ferma tutela dell’indipendenza esterna della giurisdizione dai condizionamenti del legislatore contingente (a tutela dei diritti affermati dalle Carte costituzionali); nella vigile attenzione alla realtà e al mutamento sociale (poiché l’indipendenza non postula la separazione, né l’indifferenza); nella caparbia ambizione di contribuire alla rimozione degli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della persona umana, cui devono essere garantiti diritti “concreti ed effettivi” e non “teorici ed illusori”; nella ferma tutela dell’indipendenza interna al corpo della magistratura, accompagnata da uno statuto dei doveri di ciascun magistrato, illuminato dalla prospettiva collettiva dell’Ufficio in cui opera.
Porre al centro della riflessione questi doveri etici – che chiamano in causa la responsabilità di ciascun magistrato e di tutto l’associazionismo giudiziario – è, forse, la precondizione necessaria per far sì che l’applicazione del diritto favorisca l’affermazione dell’uguaglianza, della libertà e della solidarietà sociale che la nostra Costituzione continua a reclamare come tratti caratterizzanti la vita della nostra comunità sociale.
L’Esecutivo di Magistratura democratica
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