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La tortura umilia garanzie e diritti

Gian Carlo Caselli il . Costituzione, Diritti, Giustizia, Politica, SIcurezza

Inutile cercare sicurezza se non si produce giustizia. L’esempio è Guantanamo. 

Nella denunzia della madre, confermata e rinforzata da un filmato – il caso di Matteo Falcinelli è chiaro nelle sua drammatica ferocia. Il giovane, arrestato a Miami in modo brutale dalla polizia, viene da questa richiuso in una cella e per circa 13 minuti costretto a subire un trattamento qualificabile come tortura (“incaprettato” e maltrattato), senza che avesse commesso alcun reato, come accertato dal giudice competente.

Alla cronaca manca ancora, purtroppo, la notizia della sospensione degli agenti e della loro denunzia a chi di dovere perché rispondano degli intollerabili fatti commessi. Spetta anche alla nostra Diplomazia compiere in tale direzione ogni passo possibile.

Il problema che fin da subito ci tocca tutti è che quei comportamenti sono gravemente distorsivi del sistema democratico anche sul piano dell’etica, perché sono il rifiuto di assoggettarsi alle leggi ordinarie e quindi la pretesa di considerarsi diversi dagli altri, depositari di criteri esclusivi di valutazione di ciò che è bene o male, vantando un diritto a una sorta di codice riservato,  che non può che produrre pericolose derive.

La sicurezza è un valore irrinunciabile e primario, da perseguire mettendo in gioco ogni intelligenza e risorsa. Ma c’è il pericolo di considerarla esclusivamente in termini di ordine pubblico. Così (anche lasciando da parte – almeno in questa sede – le enfatizzazioni  propagandistiche) si rischia di sacrificare sull’altare della sicurezza tutto il resto: in particolare le garanzie e i diritti.

Il pericolo è che le garanzie e i diritti diventino ostaggio della sicurezza, diventino una scatola vuota. Se noi ci impegniamo per dare maggiore sicurezza e non cerchiamo anche di produrre più giustizia, rischiamo di generare o perpetuare insoddisfazione che potrà creare anche rabbia e al limite maggiore violenza.

Questo dato è decisivo: se non ci si occupa anche di produrre più giustizia, se si dimenticano le garanzie e i diritti, il sistema entra in cortocircuito. E il pensiero – sul piano internazionale – va a una pratica purtroppo molto diffusa e denunciata da vari organismi, specie con riferimento a Guantanamo: i maltrattamenti, le torture nei confronti di soggetti che non hanno uno status di riferimento, sono degli “ibridi”  dal punto di vista della classificazione, non essendo prigionieri di guerra, non essendo accusati di un reato specifico, non essendo condannati. Costoro sono elementi “sospesi”, senza diritti, meramente sospettati di attività illegali (soprattutto terroristiche), molte volte a torto. Nei loro confronti si attuano spesso pratiche che sono la negazione delle radici stesse della democrazia. Inutile dire che i cattivi esempi di Guantanamo possono aver fatto scuola, magari inconsapevolmente, fino al caso dello straniero Falcinelli.

È poi inconcepibile che si voglia esportare la democrazia praticando maltrattamenti e tortura. Eppure una linea di pensiero di questo tipo ha avuto i suoi sostenitori: così è per i cosiddetti “teorici della tortura buona” (cioè mantenuta entro certi limiti e magari… controllata da un giudice).

Concludo con un accenno a un universo estremamente complesso, quello dell’esecuzione penale. Da una parte troviamo l’esigenza della collettività che chiede convivenza pacifica, sicurezza, giustizia e dall’altra il bisogno imprescindibile di correggere senza schiacciare, senza annullare la dignità e la speranza di chi ha sbagliato, senza restare prigionieri di logiche vendicative, che finiscono per disumanizzare la pena.

La psicologia di chi sta fuori si esprime con frasi del tipo: “buttiamo via la chiave”, “se lo sono voluto”, “non c’è niente da fare”, “sono cattivi e se lo meritano”. Si tratta di una cultura diffusissima che però non costruisce reali itinerari di convivenza serena e corresponsabile. Chi ha sbagliato si vede sempre più spinto verso ulteriori, nuovi errori. E così si innesca una spirale che crea sempre maggiore insicurezza, l’esatto opposto di quel che chiede la collettività.

Progettare soltanto contenitori (magari fermandosi ai proclami, com’è spesso abitudine del nostro Governo) senza curarsi del contenuto, significa fare del carcere un luogo in cui si finisce, non un luogo da cui si può ricominciare. Un luogo che prepara sempre nuovi giri di emarginazione e carcere. Con effetti nefasti su quella sicurezza che ogni giorno si invoca, da parte di qualcuno con accenti sempre più urlati.

Fonte: La Stampa

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