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Libertà di stampa in Italia: il potere non si critica

Sielke Kelner * il . Costituzione, Diritti, Giustizia, Informazione, Istituzioni, Politica

Nel 2021, l’allora leader dell’opposizione Giorgia Meloni querelò per diffamazione Roberto Saviano. Lo scorso ottobre, il tribunale romano ha emesso una condanna nei confronti dello scrittore italiano. Una sentenza che ha allarmato la società civile italiana ed europea. Ne abbiamo parlato con Antonio Nobile, legale di Saviano

Il processo di primo grado inerente la querela per diffamazione avviata da Giorgia Meloni nei confronti dello scrittore Roberto Saviano, si è concluso con una sentenza di condanna da parte del tribunale penale di Roma. Tuttavia, in riconoscimento del valore morale della critica espressa da Saviano, la giudice ha riconosciuto l’attenuante.

La sentenza è stata accolta con sgomento dalla società civile italiana ed europea. A preoccupare sia il coinvolgimento in quanto querelante di una figura pubblica di altissimo livello, la premier, sia la questione oggetto di contesa, quella dei salvataggi di migranti nel mare Mediterraneo ad opera delle ONG, questione di pubblico interesse. Per le reti internazionali come MFRR e CASE, la querela di Meloni costituisce una SLAPP, una querela bavaglio e la sentenza crea un pericoloso precedente che potrebbe facilitare ulteriori tentativi di mettere a tacere chiunque critichi il potere ed i leader politici. Ne abbiamo parlato con Antonio Nobile, avvocato penalista del Foro di Napoli, cultore della materia in diritto processuale penale presso l’Università del Lazio meridionale e legale di Roberto Saviano.

Dal punto di vista di un avvocato penalista, che tipo di conseguenze potrebbe avere questa sentenza nei confronti della libertà di stampa e di espressione in Italia?  

Innanzitutto, i primi effetti si producono su Saviano, che allo stato ha un precedente penale per diffamazione e questo per un intellettuale politico, sicuramente è una condizione molto penalizzante. Poi c’è in questo processo sin dal principio una fortissima componente simbolica. Questa azione legale e la decisione di mantenerla viva anche quando Meloni è diventata Presidente del Consiglio [quando l’azione è stata proposta era a capo dell’opposizione] ha un valore simbolico perché i personaggi coinvolti sono entrambi molto noti. Saviano è uno degli intellettuali italiani più noti anche all’estero. Se si voleva colpire qualcuno perché il messaggio fosse chiaro, allora Saviano era l’obiettivo ideale. Le conseguenze per lo stato di diritto sono immediatamente misurabili partendo da una valutazione tecnica, da tutta la giurisprudenza della Corte EDU che ha riconosciuto nei giornalisti d’inchiesta e politici il cane da guardia della democrazia.

Abbiamo assistito ad un peggioramento della libertà di stampa ed espressione negli ultimi anni? 

La situazione è preoccupante perché ovviamente questo processo rappresenta uno slittamento in avanti peggiorativo. Io difendo Saviano oramai da quasi 15 anni e nel corso degli anni Saviano ha ricevuto moltissime querele. Di queste querele in sede penale le uniche due volte in cui non è stata chiesta l’archiviazione delle accuse è stato quando i querelanti sono stati Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Se noi vogliamo considerare la libera espressione anche di una critica aspra, forte come una sorta di cartina al tornasole della salute della democrazia allora sì, effettivamente questa condanna è una brutta notizia, ma è una brutta notizia come tutto il processo è stato gestito.

Durante l’udienza dello scorso ottobre, il pubblico ministero romano ha affermato che dare della bastarda ad una politica, non rientra nell’esercizio della critica politica più aspra, ma costituisce un attacco alla persona. Perché quell’insulto formulato da Saviano in quel contesto non rappresenta un attacco alla reputazione?

Non è un attacco alla reputazione perché quello che l’accusa non ha considerato è che quando si parla di una diffamazione rispetto alla quale si invochi la causa di giustificazione del diritto di critica, è importante valutare il contesto della critica. Le conclusioni del pubblico ministero avrebbero avuto un senso se Saviano in maniera completamente gratuita durante un’intervista avesse detto così en passant che Meloni era una bastarda. Ma in realtà quelle conclusioni del Pubblico ministero si poggiano su un dato che è una falsificazione. Saviano non ha mai utilizzato il singolare. Questo “bastardi” al plurale, che dava molto più il senso della critica politica, è stato non a caso portato al singolare sia dall’accusa privata che dal pubblico ministero perché c’era la necessità di spacciare quella che era una critica politica – che coinvolgeva più soggetti che, pur da posizioni politiche differenti, avevano manifestato il medesimo approccio negativo, rispetto alla possibilità di favorire i salvataggi in mare di migranti da parte delle organizzazioni non governative – per un attacco personale, che era l’unico modo per escludere ogni legittimità alla critica formulata da Saviano. La scriminante del diritto di critica peraltro è stata in parte riconosciuta in sentenza perché Saviano è stato condannato, ma gli è stata riconosciuta un’attenuante che è collegata all’alto valore morale e sociale della sua critica. Però, per tornare all’accusa, in questo processo l’accusa è stata molto timorosa non dell’imputato, molto timorosa nei confronti della parte civile.

Come spiega la decisione del tribunale romano?

Quello che sin dal primo momento mi ha colpito è che il giorno prima era stata emessa una sentenza d’appello nei confronti di Mimmo Lucano. Che si tratta di un altro caso giudiziario che ha avuto molto risalto perché Mimmo Lucano così come Saviano, è stato individuato come una straordinaria occasione di propaganda da parte dei medesimi politici che hanno eletto Saviano a loro bersaglio prediletto. Perché nelle cause per diffamazione attraverso le persone, oggetto di processo sono le idee. Se io dovessi darmi una spiegazione sul piano del diritto, voglio immaginare che nella migliore delle ipotesi il tribunale abbia considerato la sentenza della Corte EDU che analizza il caso di un politico austriaco che nel contesto di un articolo era stato definito imbecille da un giornalista che lo criticava, in quanto questo politico austriaco aveva detto che anche i soldati nazisti avevano contribuito a costruire la pace. La Corte fa un ragionamento molto interessante perché dice: badate che questa critica è giustificata perché il politico, mentre sta affermando quella bestialità, lo fa per un calcolo propagandistico. Infatti, in quella sentenza si parla non a caso del concetto di indignazione coscientemente provocata, che mi pare una definizione assai efficace del concetto di propaganda. Che vuol dire questo? Il politico, per dirla in maniera molto informale, la spara grossa perché sa che in questo modo indignerà, per ragioni opposte, sia i suoi sostenitori sia l’altra parte politica. Nel momento in cui si determina questo effetto di indignazione in maniera cosciente allora la critica, dice la Corte EDU, può essere proporzionata, è ammessa anche una critica molto aspra. La sentenza che ha condannato Saviano non affronta la questione e fa anche confusione tra alcuni degli elementi costitutivi del reato di diffamazione: la sensazione forte che ho avuto leggendola è che la stessa giudice non fosse convinta della decisione di condannare, ma credo abbiano pesato fattori esterni.

Qual è il contesto in cui è stata emanata la sentenza?

Qualche giorno prima della sentenza, la cronaca politica italiana è stata completamente monopolizzata dal caso di una giudice siciliana che non aveva applicato il cosiddetto decreto Cutro [il decreto emanato dal governo dopo la tragedia nelle acque antistanti la spiaggia di Cutro, ndr]. In un qualsiasi Stato di diritto i giudici interpretano la legge per applicarla. Di fatto tengono conto della compatibilità con il quadro costituzionale. Dire come Meloni ha detto che i giudici devono applicare le leggi e non interpretarle è un’enormità. L’idea che il giudice debba applicare una legge sempre e comunque anche quando la legge sia incostituzionale va a contrastare i principi considerati essenziali dalla nostra Carta fondamentale. È un’idea pericolosissima che tradisce da parte del Governo una visione autoritaria e illiberale della democrazia.

Cosa comporta essere querelati da una figura pubblica di altissimo livello?

Nel caso particolare di Saviano, un capo del Governo che si costituisce parte civile in un processo, pone delle enormi conseguenze sul piano della separazione dei poteri. Dell’indipendenza della magistratura, dell’indipendenza nei fatti della magistratura. Se io giudice so che l’avvocato che ho di fronte nel giro di un anno diventa viceministro della Giustizia o so che l’avvocato che ho di fronte nel giro di un anno diventa componente del Consiglio Superiore della Magistratura e che quindi la mia carriera potrebbe passare dalla scrivania di quell’avvocato, capite bene che l’indipendenza è messa in difficoltà. Le situazioni descritte non sono esempi generici: si tratta infatti rispettivamente di quanto è accaduto nei processi intentati contro Saviano da Meloni e Salvini. Durante tutto il procedimento abbiamo vissuto una situazione paradossale, dove la persona potente sembrava essere Saviano. E la persona da tutelare Meloni, anche quando era diventata Presidente del Consiglio. Questo ci fa capire che innanzitutto la classe politica ritiene di avere una rivalsa da esercitare nei confronti del mondo dei media. Oggi siamo arrivati al punto che, e questo il governo Meloni lo ha sdoganato, si querela a prescindere. O perlomeno si minaccia querela, perché poi tra la minaccia della querela e l’arrivo della querela c’è di mezzo il mare. Si minaccia querela senza smentire in alcun modo la critica espressa. Un lavoro di inchiesta ricostruisce a carico di un ministro, di un viceministro, di un esponente di partito una determinata situazione adducendo degli elementi di riscontro. La risposta è: querelo. Difficilmente ci si giustifica. Perché quello che si vuol trasmettere anche da questo punto di vista è che il potere non si critica. E se lo si fa, lo si fa per un interesse, quindi bisogna essere puniti.

Passando alle attività del legislatore italiano, nel 2020 e nel 2021, la Corte Costituzionale aveva invitato il Parlamento ad avviare un dibattito di ampio respiro sul tema della diffamazione a mezzo stampa, sia nell’ambito civile sia in quello penale. Nel corso dello scorso anno sono stati presentati 5 diversi disegni di legge. Lo scorso autunno ne è stato selezionato solo uno da portare avanti nell’iter parlamentare, il DDL Balboni.

Lo dico contro il mio interesse professionale, ma la mia idea è che la diffamazione deve essere depenalizzata: non dovrebbe esistere un reato di diffamazione. Ferma restando la possibilità per chi senta di aver subito una lesione della propria onorabilità, di agire in sede civile per ottenere un risarcimento del danno controbilanciato dalla possibilità di dichiarare la temerarietà dell’azione, possibilità che esiste già nel nostro ordinamento in ambito civile, ma che andrebbe implementata stabilendo un criterio di proporzionalità tra il danno paventato da chi cita in giudizio e l’entità della sanzione in caso di accertata temerarietà della lite. Se noi vogliamo veramente raggiungere e realizzare pienamente quello che è lo spirito della Costituzione dell’articolo 21, l’idea che si possa punire sul piano penale qualcuno per aver espresso le proprie idee è, dal mio punto di vista, non più accettabile. Il pericolo, finché si manterrà la rilevanza penale del reato di diffamazione, è di interpretazioni di volta in volta diverse e legate alle contingenze.

* Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa

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Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del Media Freedom Rapid Response (MFRR), cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea.

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