Vincenzo Agostino. L’uomo che ci insegnò a restare umani dopo un dolore sovrumano
Lo confesso. È dall’altra domenica che ci penso. Come ricordare Vincenzo Agostino, il “padre con la barba”, in queste “Storie italiane”?
È giornalistico arrivare dopo che in tanti gli hanno dedicato un elzeviro o una foto? Alla fine ho pensato che non sarà giornalistico ma risponde al comandamento a cui con tanti ho deciso di obbedire davanti alle tragedie, alle smemoratezze e alle indolenze della storia: “restiamo umani”.
Vincenzo è stata una delle persone più umane che abbia conosciuto nella mia vita. Anche se molto andava oltre l’umano nella sua avventura su questo mondo. Certo ebbe poco di umano il dolore a cui fu costretto, quello di vedere un intero nucleo familiare (suo figlio Nino, la nuora Ida e il nipotino in arrivo) distrutto con la più tipica ferocia mafiosa senza sapere né da chi né perché.
Né stette meglio quando intuì il chi e il perché. Uomini delle forze dell’ordine, stessa divisa del figlio, si erano macchiati senza scrupoli dell’eccidio all’interno di un più ampio progetto criminale.
Il candore della barba prese a rifulgere nelle manifestazioni antimafia, dove dopo quell’agosto del 1989 palermitano egli iniziò ad arrivare puntuale – dovere di padre – per infiniti anni di fila. Si coglieva, tutti lo coglievamo, qualcosa di sovrumano in quella sofferenza, in quella sfida al fato e a se stesso di non tagliarsi mai più la barba se non fosse arrivata la verità, e con essa la giustizia. La lunga barba argentea richiamava in me sentimenti biblici. La pazienza di Giobbe, la capacità di chiudere nel proprio corpo un destino non misurabile.
Per qualche anno intervenne alle assemblee dei familiari scagliando la sua rabbia contro l’inerzia e le complicità dello Stato. Costui bestemmia, avrebbero potuto commentare i farisei in odore di incenso, sempre compunti in quelle occasioni in cui tutti hanno il compito di apparire buoni e dolenti. Ma Vincenzo “sapeva” con il cuore, quando guastava la liturgia e trasformava in tuono la ribellione all’ingiustizia. Gradualmente Giobbe prese in lui il sopravvento. Si fece più silenzioso, benché il suo sguardo scuotesse più di un urlo di Munch.
Lo sguardo appunto. Andavano oltre l’umano anche i suoi occhi. Che non erano azzurri, cielo o mare che fosse. Erano celesti, meravigliosa sublimazione del reale. Quel celeste che trovi solo in alcuni siciliani o calabresi, che a volte diresti naturale trasfigurazione del creato, altre volte eredità di migrazioni millenarie. E che io ricordo di avere visto solo nei vecchi, il che è impossibile, anche se mi piace immaginare ve ne sia una ragione.
Gli occhi di Vincenzo si incaricavano di parlare, di “spiegare” per lui. Soprattutto agli altri familiari, ai quali sapeva esprimere una solidarietà speciale, lui che avrebbe potuto chiederne soprattutto per sé, man mano che l’età gli allungava la barba e gli riduceva la speranza e il diritto morale di potersela tagliare. A un certo momento spuntò il bastone. A certificare che Giobbe era stato tradito dal cielo. E tuttavia con orgoglio compariva egualmente alle manifestazioni. A Napoli, a Milano, a Palermo, a Latina, ovunque. Lo incontrò una volta anche papa Francesco, al cui cospetto non sfigurò in maestà di portamento.
Perse per strada, era il 2019, la donna della sua vita, Augusta, sempre in piedi o seduta accanto a lui, compagna di dolore e di amore verso il nipotino, diventato giovane uomo passando da un 21 marzo all’altro.
Quando anch’io persi la donna della mia vita mi telefonò come io avevo fatto con lui: “ora siamo uguali”, mi disse. “Prima la mafia, poi la malattia”.
Ultimamente uno scorcio di verità giudiziaria lo autorizzò a tagliarsi qualche ciuffo di barba. Lo ricordo con ammirazione e con malinconia. E con la stessa dolcezza che da lui è venuta a un intero movimento.
Perché è bello per un movimento avere simboli morali come lui. Posso assicurare che è una fortuna.
Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 29/04/2024
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