Giornali e parole. L’“onniscente” senza “i” avrebbe fatto svenire il mio maestro Botto
A volte le combinazioni di parole e situazioni sono davvero incredibili. Come predisposte da grandi e involontari registi, esse sgomentano, divertono, sconcertano. E suscitano riflessioni a cascata.
È quanto mi è capitato recentemente mentre ero immerso nella lettura di un grande quotidiano. Sfogliavo le pagine della prima parte, qui Gaza, là l’Ucraina, qua i rapporti tra Cina e America o il baratro della sanità italiana, quando d’improvviso, sfoglia che ti risfoglia, mi trovo davanti a un editoriale ammonitore, che spiega come non possiamo essere onniscenti.
Avete letto bene, non ho sbagliato io. Stava proprio scritto “onniscente”: senza “i”. Quasi che l’autore volesse divertirsi a nostre spese ironizzando su sé medesimo. Mostrarci che lui per primo non lo era, “onniscente”; invitarci a diffidare di chi fa sfoggio quotidiano di cultura, perfino di chi per mestiere è costretto ogni giorno a lavorare con la lingua italiana, tradizionalmente considerata una delle più complesse sul piano sintattico e delle più ricche sul piano lessicale. Attenzione agli intellettuali, poteva sembrar dire.
Senonché l’autore non intendeva affatto provocare il lettore. Aveva semplicemente sbagliato. Per fretta, sciatteria, distrazione fatale? Non lo sapremo mai.
Io però, che potrei tranquillamente incorrere in altri tipi di errori, da un errore del genere mi sarei salvato. L’assenza di quella “i”, a una prima e unica rilettura (a volte le fretta c’è davvero), mi sarebbe esplosa fragorosamente sotto gli occhi. E non per merito mio, ma per merito del maestro Francesco Botto, che ebbi per ventura come insegnante elementare alle scuole comunali di Porta Nuova a Milano, quando ci passava ancora il Naviglio.
Il maestro Botto aveva, giustamente, un’alta concezione del suo ruolo. E pensava che davvero gli scolari che si avvicendavano sui banchi della sua classe sarebbero stai destinati ad alte funzioni. Per questo dovevano conoscere l’italiano in tutte le sue sfumature, non potevano permettersi licenze grammaticali. Non dovevano dire “spesse volte”, perché le volte sono frequenti, non spesse, a meno che non si pensi alle volte di un arco.
Non potevano dire che erano arrivati primi o secondi in una gara di matematica (ne esistevano, e nessuno ne usciva mortificato…) perché si arriva primi in una competizione che preveda del movimento, tipo una gara di nuoto o una gara ciclistica. Altrimenti ci si “classifica” primi.
Non parliamo poi della storia e della geografia. La Lega era di là da venire, ma il maestro Botto, in quella scuola intitolata ad Alberto da Giussano, voleva che della Lombardia, compresa la sua geografia economica sapessimo, in terza elementare, praticamente tutto, pure l’industria calzaturiera di Vigevano (non capoluogo di provincia) o l’agricoltura di Crema (idem). Faceva ogni giorno una scuola che accendeva nei suoi piccoli alunni una spia immediata e automatica davanti all’assenza di una “i”. Un magnifico riflesso condizionato.
Ecco che cosa viene di pensare, portando gratitudine a chi ti ha formato da bambino. Quanti maestri Botto siano mancati a questo Paese. Di quanti esso ne avrebbe oggi bisogno per far sì che lo studio delle lingue non avvenga a detrimento della nostra. Osservazioni non peregrine davanti alla valanga di errori che si incontrano nella lettura di libri, giornali e documenti ufficiali.
Agli “schernirsi” al posto di “schermirsi”, ai “quando a” al posto dei “quanto a” (sempre più frequenti), agli “afferrati in” al posto dei “ferrati in”. O all’oscenità montante dell’ “eco” usato al singolare maschile (“l’eco diffuso”).
Insegnare l’italiano agli stranieri, certo. Ma prima insegniamolo (meglio con la “i”) nelle scuole pensate per chi lo userà per professione, a partire da quelle di giornalismo e della pubblica amministrazione.
Perché non potremo essere “onniscenti”, ma l’abc pretendiamolo….
Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 08/04/2024
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