In (vera) memoria del generale Antonio Subranni, deceduto
Il depistaggio sul caso Impastato, le parole di Agnese Borsellino e la trattativa Stato-mafia.
Il generale Antonio Subranni è morto. Aveva 91 anni. A comunicarlo oggi (anche se il decesso è di qualche giorno fa) non è stata la famiglia, ma il capogruppo di Forza Italia al Senato. Lo ha fatto con il suo delirante “costume” nel tentativo di mistificare la realtà e riscrivere la storia, lanciando accuse verso chi ha avuto l’ardire di portarlo al processo.
“Nei giorni scorsi si è spento il generale Antonio Subranni, dopo anni di sofferenze. Voglio esprimere vicinanza alla moglie, alla figlia Danila ed a tutta la famiglia. Per anni ha subito un ingiusto processo da parte della magistratura di Palermo che si è concluso con una assoluzione forse arrivata troppo tardi. E sono certo che anche il suo corpo ha subito le conseguenze di questa ingiusta aggressione giudiziaria” ha detto facendo riferimento al processo sulla trattativa Stato-mafia conclusosi in Cassazione con l’assoluzione “per non aver commesso il fatto” così come per gli altri ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno.
Quindi Maurizio Gasparri ha proseguito: “Mi scuso con la famiglia se rompo il loro ammirevole riserbo. Ma penso che qualcuno che ha conosciuto le vicende italiane debba pubblicamente rendere onore al generale Subranni, alla sua memoria e al suo esempio. Io ne ho sempre sostenuto l’azione, l’opera e anche durante le vicende giudiziarie ho sempre affermato la sua onestà, che solo troppo tardi le sentenze hanno accertato. Oggi c’è qualcuno che piange di dolore mentre qualcun altro forse deve piangere di vergogna”.
Ovviamente, nel suo solito delirio, Gasparri tenta di riscrivere la storia dell’ex comandante del Ros, dipingendolo come un eroe nonostante sia finito al centro di diverse vicende giudiziarie che, con tutto il rispetto per la morte, vale la pena ricordare.
E non ci riferiamo solo al dialogo che gli ufficiali del Ros avviarono con Vito Ciancimino nei mesi che separano la strage di Capaci da quella di via d’Amelio, chiedendo al sindaco mafioso di Palermo il perché vi fosse un “muro contro muro” tra Cosa nostra e lo Stato.
Si deve partire da lontano. Dal maggio 1978 e le vicende che hanno riguardato le indagini sulla morte di Peppino Impastato, attivista, politico e giornalista assassinato a Cinisi nella notte tra l’8 e il 9 maggio.
A lungo si è cercato di far credere che quella morte riguardasse un terrorista saltato in aria mentre cercava di fare esplodere la ferrovia. Non era così. Era un omicidio di mafia e per anni si è portato avanti un depistaggio per non arrivare a questa verità.
Le prove sono nelle carte e nelle testimonianze.
Ed è un dato di fatto che subito dopo il rinvenimento del cadavere la pista mafiosa non fu presa in considerazione dai carabinieri.
Depistaggio sul caso Impastato
Nel 2000 la Commissione parlamentare antimafia che era presieduta da Beppe Lumia, approvò all’unanimità una relazione in cui veniva scritto in maniera chiara quanto segue: “Giuseppe Impastato sfidò la mafia in un territorio in cui si era stabilito un sistema di relazioni tra segmenti degli apparati dello Stato e mafiosi molto potenti; un sistema di relazioni che, in quegli anni, può essere rinvenuto anche in altri territori, teso, spesso illusoriamente, alla cattura, per via confidenziale, di alcuni capimafia, all’apporto che queste relazioni potevano dare ad alcuni filoni di indagine o, comunque, ad una pacifica convivenza per un tranquillo controllo della zona”.
“È anche del tutto probabile – continuava la relazione – che Badalamenti abbia avuto dei rapporti confidenziali con i carabinieri in una zona alta, apicale, data la statura delinquenziale del capo mafia di Cinisi. È ancora tutto da scrivere il capitolo del rapporto tra mafiosi e forze dell’ordine. E quando lo si scriverà si potrà vedere che esso è popolato da notissimi capimafia i quali, agli occhi del popolo mafioso, vogliono apparire come i più fieri avversari della ‘sbirraglia‘ ma in realtà con la ‘sbirraglia’ trattano, si accordano, fanno dei patti. Un doppio gioco. Per un lungo periodo storico la prassi dei rapporti confidenziali dei carabinieri e dei poliziotti con i mafiosi è stata un dato di fatto, anzi è stata il cuore di quelli che oggi vengono chiamati ‘colloqui investigativi’”.
La Procura di Palermo condusse un’importante attività investigativa sul depistaggio e nel 2018 il gip di Palermo Walter Turturici decretò l’archiviazione per prescrizione nei confronti di Subranni.
Su di lui pendeva un’accusa di favoreggiamento.
E nelle motivazioni del Gip veniva certificato il “contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative” rispetto al delitto. E in riferimento a Subranni il giudice evidenziava come “aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente escluse la pista mafiosa”.
La verità processuale sulla morte di Peppino, dopo ben tre inchieste, era comunque arrivata nel 2001 con la condanna a 30 anni di Vito Palazzolo, autore materiale del delitto e nel 2002 con l’ergastolo per il boss Gaetano Badalamenti, il mandante.
Le parole di Agnese Borsellino
Gasparri, così come molti detrattori del processo sulla trattativa Stato mafia, nella sua ricostruzione dimentica quanto fu dichiarato da Agnese Piraino Leto, moglie del giudice Paolo Borsellino.
Davanti ai magistrati di Caltanissetta, quando fu sentita nel 2009 e nel 2010, rivelò le confidenze che il marito le aveva fatto nel giugno del 1992: “Mio marito mi disse testualmente che ‘c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato’. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la ‘mafia in diretta’, parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano. In quello stesso periodo chiudeva sempre le serrande della stanza da letto di questa casa, temendo di essere visto da Castello Utveggio. Mi diceva: ‘Ci possono vedere a casa’”. E poi ancora: “Mi disse che il gen. Subranni era ‘punciuto’ – (che significa essere affiliato a Cosa nostra, ndr) – Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l’Arma dei Carabinieri era intoccabile”.
Quell’accusa così terribile fu pesantemente rigettata da Subranni che al tempo, in un’intervista al Corriere della Sera, si scagliò con parole vergognose contro Agnese Borsellino dicendo che bisognava prestare poca credibilità alle dichiarazioni della stessa in quanto “non sta bene in salute. Forse un Alzheimer, non so quando cominciato”.
Per il senatore Gasparri il generale Subranni fu eroico anche in questa occasione? Chissà.
Quel che è certo è che quando furono sentiti nel processo Borsellino quater i figli di Borsellino, Lucia e Manfredi, dissero che la madre era la persona più lucida dei familiari di Paolo Borsellino nel raccontare quelle cose. E successivamente anche un altro testimone, il magistrato Diego Cavaliero, riferì di aver appreso da Agnese Borsellino della confidenza sul generale Subranni che l’era stata fatta da Paolo Borsellino.
Quelle dichiarazioni della signora Piraino Leto avevano fatto finire sotto inchiesta l’ex comandante del Ros con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Un’inchiesta che nel 2012 si concluse con un’archiviazione.
Ecco i fatti che restano al di là delle assoluzioni, delle archiviazioni o delle prescrizioni. E non ci vergogniamo certo nel ricordarli. Fermo restando il rispetto di fronte alla morte, la memoria non si cancella.
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