Il 21 marzo offro il mio dolore contro le mafie
Sono ormai 29 anni che cammino in silenzio al fianco di don Ciotti e dei tanti familiari di vittime innocenti della criminalità per le strade del nostro Paese, da Torino, a Roma, Napoli, Torre Annunziata, e ormai siamo diventati tutti amici e il 21 marzo ci abbracciamo, con gli occhi che ancora si riempiono di lacrime, perché il dolore, il nostro dolore non ha fine, si attenua ma non finisce.
Ogni anno il 21 marzo prendo le valigia e parto, perché so che è importante esserci, so che il nostro dolore deve generare forze positive, deve generare un cambiamento.
So che esserci proprio il 21 marzo non è inutile.
So che è importante che nascano associazioni, comitati, fondazioni contro la camorra. Serve, serve che se ne parli, serve che il dolore di tanti non resti solo un dolore privato.
So che è utile intitolare strade, scuole, piazze a vittime innocenti della criminalità, serve a far crescere una coscienza civile, a non far dimenticare chi ha ingiustamente perso la vita. Così come è importante raccontare le mafie da parte degli sconfitti e non solo da quella dei carnefici, come più spesso accade.
È necessario avere giustizia e purtroppo sono ancora troppe le vittime in attesa di verità. Anche per loro il 21 marzo camminiamo con Libera e don Ciotti, perché non ci arrendiamo alla violenza criminale.
Serve la repressione naturalmente, investire nelle forze di polizia, in nuovi e sempre piu sofisticati strumenti investigativi, che infatti hanno portato in questi giorni all’arresto di due killer di un omicidio di oltre 30 anni fa, ma serve anche la cosa piu difficile e complessa, che non da risultati immediatri e che quindi interessa poco alla politica che guarda all’oggi e non sa programmare e immaginare il futuro, la prevenzione.
Serve dare speranza e opportunità a quei ragazzi di famiglie mafiose o che nascono in territori con un alone mafioso, a quei tanti ragazzi di Napoli che non frequentano la scuola.
La mafia somiglia a una malattia ereditaria che passa di padre in figlio, come il diabete.
I fattori genetici predispongono allo sviluppo del diabete ma da soli non bastano a provocarne lo sviluppo: perché questo accada devono entrate in campo anche i fattori ambientali per esempio la dieta, per la la mafia accade esattamente la stessa cosa, si nasce con una predisposizione ma poi è l’ambiente dove vivi a determinare il futuro da mafioso. E allora quello che lo Stato dovrebbe fare è costruire un ambiente accogliente e stimolante dove ogni ragazzo possa trovare le giuste opportunità.
In Italia sono circa 700mila i ragazzi che vivono in uno dei 178 Comuni sciolti almeno una volta per mafia negli ultimi 20 anni: Comuni (e minori) dislocati nella stragrande maggioranza in Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, con alcune propaggini nel Lazio e in alcune regioni del Nord (Liguria e Piemonte).
Crescere in un territorio povero e ad alta densità mafiosa significa crescere in un ambiente tossico.
La famiglia rappresenta l’humus in cui ai figli di mafia, sin dall’infanzia, vengono proposti concetti come la vendetta, la violenza, la sopraffazione.
Per questi ragazzi sarà difficile, se non impossibile, progettare o decidere di intraprendere un’attività lavorativa lecita, in quanto, per loro, la strada sembra già scritta: una strada senza alternative, in cui ciò che per la società costituisce un fenomeno da rigettare, per loro rappresenta l’unica normalità perseguibile.
Allora risulta evidente che non servono solo forze dell’ordine ben attrezzate, ma forse soprattutto assistenti sociali.
Anche per questo il 21 marzo, finché ne avrò la forza, continuerò a camminare per le strade del nostro paese al fianco dei familiari delle vittime innocenti delle mafie e a don Ciotti.
Fonte: La Repubblica, Napoli
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