Questione morale. Così divenni interista: non macchiate la maglia con le scommesse
Se l’ha scritto Gian Antonio Stella un motivo ci sarà. Nel senso che qualcosa di vero deve pur esserci nella notizia che qualcuno intorno all’Inter sta brigando per la scelta di uno sponsor speciale. Di quelli che farebbero l’orgoglio di qualsiasi tifoso: una bella società di scommesse con sede a Malta.
Ci vogliono fantasia e coraggio per pensare a un testimonial così, che con la propria premiata attività e la propria residenza comunichi al mondo la nuova identità nerazzurra. Ma ci vuole soprattutto cattiveria, una implacabile volontà di fare del male all’Inter per far balenare nell’immaginario nerazzurro un pensiero simile.
E se posso dilagare un po’ con l’ego, occorre volere tanto male anche al sottoscritto. E vi spiego perché. Raccontandovi come divenni interista. Correva dunque il campionato 1957-1958. E in Italia e nel mondo impazzava una terribile influenza, detta l’asiatica, colpevole di milioni di morti. Ero bambino e sentivo narrare gli effetti nefasti di quell’influenza senza paura, poiché la gente, ancora fresca di guerra, ne parlava con una leggerezza irresponsabile, che non avremmo mai accettato in epoca di Covid. È a letto con l’asiatica, si diceva strizzando l’occhiolino a proposito di chi l’avesse contratta.
Che c’entra dunque l’Inter? C’entra (e molto!) di rimbalzo. Perché accadde una settimana d’autunno che l’Atalanta dovesse incontrare il Milan a San Siro (già, lo storico e disprezzato San Siro). E che si ritrovasse con otto o nove titolari ammalati. Allora le squadre erano fatte di tredici, quattordici giocatori, non di più. L’Atalanta avrebbe perciò dovuto giocare con i ragazzi. E chiese al Milan il rinvio della partita. Il Milan maramaldo non lo concesse.
E mio padre, essendo stato da ragazzo a Bergamo, era curiosamente tifoso dell’Atalanta. Sicché deprecò ripetutamente, e con parole assai efficaci, quella che a suo parere era una mancanza di sportività, indice di una particolare perfidia: la voglia di trar profitto dalle disgrazie altrui. Nel suo lessico “disonestà”. Venni portato alla partita e vidi il “mio” Milan battere i ragazzi dell’Atalanta per 5-0.
Così io bambino decisi che non avrei più tenuto per quelle maglie rossonere che, indossate da Nordhal e da Schiaffino, avevano conquistato la mia fantasia. Rarissimo caso di cambio di squadra oltre i 5 anni.
Avevo in effetti conosciuto in quel modo la questione della mia vita, la “questione morale”. E passai all’Inter. Ogni tanto ne avrei subito, in questo specifico campo, qualche delusione; ma mai come i tifosi di qualche altra squadra.
Per questo se dovessi vedere un giorno i colori nerazzurri sponsorizzati da una società di scommesse con sede in un tipico paradiso fiscale, dovrei ripassare dopo quasi settant’anni quella mia storia e i tormenti del “giovane Nando” che ne derivarono. E tuttavia ho troppa fiducia nella beneamata per pensare che possa davvero accadere. E so che nonostante il motorino tirato giù, a mo’ di assassini, dal secondo anello, il popolo nerazzurro è zeppo di “moralisti” che insorgerebbero come un sol uomo.
Semmai mi chiedo che cosa abbiano fatto di male i tifosi milanesi tutti insieme per diventare il bersaglio prediletto di un destino cinico e baro. Ma si può capire perché?
Ce ne stiamo operosi e riguardosi, cercando di fare il bene della nostra città, che innova, si trasforma, si internazionalizza, da un po’ di tempo combatte perfino la mafia, e dobbiamo subire tutte le idee più strampalate che vengano in mente al primo che passa. Un giorno qualcuno decide che ci deve buttare giù lo stadio, perché è vecchio e ci vuole qualcosa di diverso che assomigli a un centro commerciale. È con il Duomo la cosa milanese più conosciuta al mondo, ma bisogna demolirlo.
Poi qualcuno sussurra i nomi degli sponsor più improbabili per metterci addosso un insostenibile imbarazzo. Ma si può tifare in santa pace, accidenti? O no?
Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 11/03/2024
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