‘Ndrangheta stragista: dal caso Moro ai rapporti con la P2 e l’estrema destra
Nelle motivazioni della sentenza l’analisi delle “coincidenze” che “parlano”.
Per ricostruire il percorso che ha portato Cosa nostra e ‘Ndrangheta ad agire in maniera unitaria nella realizzazione di stragi e delitti nei primi anni Novanta, nel processo d’appello ‘Ndrangheta stragista, che ha visto le condanne all’ergastolo dei boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, un focus importante è stato svolto sui rapporti storici che queste organizzazioni criminali hanno avuto con certi apparati.
Già in primo grado l’istruttoria, grazie anche al contributo di testimoni come il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo o collaboratori di giustizia come Cosimo Virgiglio e Pasquale Nucera, aveva fatto emergere le compenetrazioni tra massoneria e ‘Ndrangheta, nonché il ruolo che Licio Gelli aveva avuto in diverse dinamiche.
La Procura generale, rappresentata in aula soprattutto dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, in appello ha allargato l’orizzonte approfondendo ulteriormente i rapporti intrattenuti dalla criminalità organizzata calabrese con ambienti dei servizi di sicurezza e l’estremismo di destra.
Un nuovo mondo
Rapporti che sono divenuti sempre più stretti a partire dalla fine degli anni Sessanta. Basti pensare al summit del 26 ottobre del 1969, quando un pattuglione della squadra mobile reggina sorprese un centinaio di ‘ndranghetisti in pieno Aspromonte, a due passi dal Santuario della Madonna della Montagna di Polsi, intenti a discutere la riorganizzazione della criminalità reggina.
Un evento a cui parteciparono uomini di ‘Ndrangheta, su tutti il boss Paolo De Stefano, ma anche soggetti appartenenti all’eversione nera come il principe Junio Valerio Borghese, il marchese Felice Zerbi, Bruno Di Luia, Stefano Delle Chiaie, o Pierluigi Concutelli (anche se alcuni documenti dimostrerebbero che il giorno prima aveva iniziato la propria detenzione nel carcere di Palermo, ndr) che non furono arrestati.
Altra figura centrale a cui si fa riferimento nella sentenza è quella dell’avvocato Paolo Romeo, ex parlamentare del Psdi, cresciuto nelle file di Avanguardia nazionale (già condannato in via definitiva nel processo “Olimpia” per concorso esterno e di recente condannato nel processo Gotha.
Tutti argomenti di cui ha parlato nel processo il commissario capo della Dia, Michelangelo Di Stefano, mettendo in relazione una lunga serie di eventi che, prima di arrivare alle stragi degli anni Novanta, hanno fatto la storia del Paese.
Fatti come il rapimento e la morte di Aldo Moro, il golpe Borghese, il caso di Sigonella, il caso Moby Prince, la struttura paramilitare Gladio, la figura di Vincenzo Li Causi (appartenente al Sismi che aveva coordinato il centro Scorpione e che fu ucciso in circostanze misteriose nel novembre 1993), o ancora la morte in carcere del boss Antonino Gioè.
I giudici Bruno Muscolo (presidente) e Giuliana Campagna (giudice a latere) ritengono “illuminante e pienamente condivisibile la ricostruzione analitica operata dal teste Di Stefano”. Una sequenza cronologica che degli avvenimenti che è “sintomatica dell’interconnessione assolutamente palese tra eventi e soggetti che forniscono una chiave di lettura convergente e univoca, a meno di non voler ritenere che si sia in presenza di una serie impressionante di ‘coincidenze’ che invece ‘parlano’ inequivocamente di cointeressenze, rapporti e sinergie che rivelano, al di là di ogni ragionevole dubbio, quel comune programma criminoso su cui il presente processo ha fatto luce e spiegano con dati oggettivi e concreti gli scenari che hanno determinato gli accadimenti oggetto di esame”.
In particolare la Corte d’Assise d’Appello fa riferimento “ai rapporti dell’imprenditore Giovanni Calabrò – cugino di uno dei killers dei Carabinieri Fava e Garofalo – con il massone Licio Gelli; all’appartenente al Sismi Vincenzo Li Causi – presente a Reggio Calabria pressoché contestualmente alla presentazione della Lega Meridionale – soggetto ricompreso nell’elenco dei 16 esponenti dei servizi segreti di cui ha riferito l’ex ambasciatore Fulci, Li Causi che dopo solo due giorni dalle stragi continentali e dal ‘suicidio’ Gioè, è trasferito ad altra divisione del SISMI ed inviato in missione in Somalia, dove poi verrà ucciso”. E poi ancora si indica la riunione nell’agosto 1993 a Nizza, a cui partecipano Vittorio Canale – figura legata alla cosca De Stefano -, il collaboratore Pasquale Nucera, esponente della cosca di ‘Ndrangheta degli Iamonte, nonchè Broccoletti, agente Sisde e un esponente dei servizi segreti libici. Un incontro che sarebbe stato finalizzato all’evasione di Totò Riina dal carcere di Rebibbia, dove era detenuto anche Gioè.
Il “suicidio” di Gioè
Nel processo quest’ultimo viene ritenuto rilevante nel momento in cui, prima di morire, lasciò in bella vista una lettera scritta di proprio pugno in cui cercava in ogni modo di allontanare i sospetti di rapporti tra la mafia, i suoi familiari e gli amici, con riferimenti al boss calabrese Domenico Papalia e all’ex estremista nero Paolo Bellini (di recente condannato nel processo a Bologna per l’attentato del 2 agosto 1980 alla Stazione Centrale).
Nella sentenza della Corte d’assise d’appello viene scritto: “È da condividersi l’osservazione del teste Di Stefano che ha considerato perlomeno degna di riflessione la circostanza che un uomo che è in procinto di suicidarsi pensi a scagionare un altro detenuto in relazione ad un omicidio nel quale Gioè non era in alcun modo interessato. Ma la perplessità è destinata a svanire, ove si pensi alle modalità del suicidio di Gioè, tutt’altro che trasparenti, nonché alla circostanza che il fatto avveniva la notte dopo le bombe delle stragi continentali ed alla accertata vicinanza di Gioè all’ambito dei Servizi Segreti, tant’è che fu proprio Gioè ad assassinare il boss Milazzo, che ebbe modo di constatare de visu le interazioni fra Cosa Nostra e i Servizi Segreti”.
Vertice Papalia
Il focus sulla famiglia Papalia diviene centrale nel processo d’appello ‘Ndrangheta stragista, in particolare grazie alla testimonianza di Nunziatino Romeo, che già nel 1996 aveva descritto Domenico Papalia come il “vertice della ‘Ndrangheta”. I giudici hanno evidenziato come Romeo abbia effettuato una smentita “a 360 gradi” dopo aver subito delle possibili minacce.
Non solo. Sottolineano “l’attenzione processuale” che lo stesso Papalia ha avuto rispetto a quelle dichiarazioni, inviando una missiva proprio al Presidente della Corte. Una lettera che è stata acquisita agli atti e che presenta al suo interno anche messaggi chiari contro il lavoro del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. La Corte, facendo riferimento alle dichiarazioni dei pentiti, dà atto che è lui il soggetto che aveva i rapporti con i Servizi di sicurezza e che gli stessi Servizi gli avrebbero suggerito di usare la sigla “Falange Armata” per rivendicare il delitto Mormile.
Il caso Moro
La sentenza lascia anche un’importante valutazione in merito alle vicende del rapimento e l’omicidio dell’onorevole Dc Aldo Moro.
Nel corso del processo d’appello nuovi spunti erano stati portati dal collaboratore di giustizia Girolamo Bruzzese. Un teste sulla cui attendibilità la corte non ha rivestito alcun dubbio. Sentito al processo aveva spiegato che la ‘Ndrangheta avrebbe avuto un ruolo nel rapimento Moro. Non solo. Aveva anche affermato che il summit avvenuto nel 1975 al ristorante il Fungo, a cui avrebbero preso parte Giuseppe Piromalli, Paolo De Stefano, Pasquale Condello, Giuseppe Nardi, personaggio di raccordo tra i De Stefano e la banda della Magliana, l’imprenditore Carmelo Cortese, iscritto alla P2 a diretto contatto con Licio Gelli, sarebbe stato un atto “preliminare” al rapimento.
Fonte di queste informazioni sarebbero stati il padre, Domenico Bruzzese (esponente di primo piano della cosca Crea di Rizziconi), e il boss Teodoro Crea”.
A riscontro delle parole di Bruzzese la Corte prende a riferimento il dato raccontato in aula dal teste Di Stefano su una denuncia che riguardava Rocco Santo Filippone, unitamente a soggetti dello spessore criminale di Piromalli e Mancuso e di Francesco Varone. “Per come risulta dalla sentenza relativa all’omicidio del giornalista Mino Pecorelli – ricordano i giudici – due dei fratelli Varone, durante il periodo del sequestro di persona dello statista Aldo Moro, si erano interessati per la sua liberazione, in particolare Varone Antonino aveva intrattenuto colloqui carcerari con l’allora deputato DC Cazora, accompagnato da una persona della criminalità organizzata non identificata. Varone Francesco e Antonino, sebbene non vantassero rapporti di parentela, risultarono comunque collegati con Varone Michele, in quanto costoro sono stati identificati insieme 1’8 marzo del 2002 a Cinquefrondi, a bordo di un’autovettura intestata a Varone Giuseppe, figlio di Varone Michele. Varone Giuseppe è il genero di Filippone Rocco Santo, sicchè il Varone Michele è consuocero dell’odierno imputato”.
Inoltre viene indicato come “documentato anche relativamente all’incontro carcerario Varone-Cazora, di cui riferisce il comm. Di Stefano, l’interessamento della ‘Ndrangheta nella vicenda del sequestro Moro. L’argomento peraltro non è nuovo – continua la sentenza – posto che costituisce elemento accertato la presenza di un’esponente di spicco della ‘Ndrangheta jonica sulla scena di Via Fani, luogo in cui venne perpetrato il rapimento dell ‘on. Moro”.
Craxi e Berlusconi nell’agrumeto
La Corte esprime una valutazione non negativa anche sulla dichiarazione di Bruzzese di un episodio che si sarebbe verificato dopo il rapimento e la morte di Aldo Moro, nella “stanza segreta” (test.) dei Mammoliti, Piromalli, Alvaro, Mancuso, ossia dei maggiorenti della ‘Ndrangheta.
“Si fa riferimento – ricordano i giudici nella sentenza – all’incontro – presso il fondo Piccolo – di Alvaro, Mancuso, Piromalli, Mammoliti, Ciccantoni Brachetta, con Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, che giunsero accompagnati da Nino Gangemi, personaggio che anche Bruzzese afferma essere stato tenuto in grande considerazione nel contesto ‘ndranghetistico.
I temi oggetto dell’incontro erano costituiti dal porto di Gioia Tauro, dal centro siderurgico e dalla relativa ‘spartizione’ dei lavori e degli affari fra le ditte interessate e la ‘Ndrangheta, oltre alla candidatura di Berlusconi e al posizionamento sul territorio calabrese delle antenne televisive dell’imprenditore”.
“Su tale episodio – scrive la Corte d’Assise d’Appello – come correttamente rilevato dallo stesso PG, non risultano riscontri estrinseci, pur tuttavia, non può farsi a meno di rilevare come lo stesso non possa ritenersi ‘eccentrico’ rispetto alle tematiche in esame, posto che si inserisce in un ambito di stretti e non episodici legami fra ‘Ndrangheta e politica che il processo ha con certezza ampiamente provato, sicchè Bruzzese ha fornito un quadro del tutto congruente ed armonizzato con le ulteriori risultanze acquisite, quanto a contatti ed alleanze fra soggetti di primo piano della ‘Ndrangheta e personaggi politici, nonché all’appoggio della ‘Ndrangheta al nuovo partito di Forza Italia, confermato anche dal collaboratore”.
Il “peso” probatorio di “Hybris”
Nel marzo 2023, a seguito dell’operazione Hybris, che aveva colpito le cosche di Gioia Tauro Piromalli-Molè, era stata acquisita agli atti del processo d’appello un’intercettazione di grande rilievo in cui a parlare erano Francesco Adornato (soggetto non indagato), considerato dagli inquirenti come un “navigato esponente della ‘Ndrangheta” ed uno degli indagati, Giuseppe Ferraro. Una conversazione, registrata il 17 gennaio 2021, in cui si fanno chiarissimi riferimenti alla riunione in cui le cosche calabresi avrebbero deciso di aderire alla strategia di attacco allo Stato, presso il resort “Sayonara” di Nicotera.
In particolare si riferiva che al summit il boss di Rosarno Nino Pesce, detto “Testuni”, rappresentò il mammasantissima Pino Piromalli detto “Facciazza”.
“Questo signor Pesce che lo chiamano ‘Testuni’ – si sente nell’audio dell’intercettazione – si è messo avanti e ha sostenuto che bisogna attuare le stragi di Stato”. Chi votò contro le stragi sarebbe stato il boss di Limbadi Luigi Mancuso: “Pino (Piromalli, ndr) ha sempre un’attenuante perché nella commissione che hanno deciso di mettersi a fianco dei siciliani… e compagnia bella non c’era… C’era Luigi Mancuso… ma là Luigi…ha pestato i piedi… Luigi… in questa commissione al Sayonara gli dice che lui non è d’accordo… perché gli dice Luigi… noi dobbiamo trattare con questi personaggi, gli ha detto, non dobbiamo andare a sparare… per quale motivo”.
Alla fine però, le perplessità di Mancuso sulla campagna delle stragi, così come aveva spiegato il pg Lombardo, non attecchirono e passò la linea di Piromalli e Pesce.
Secondo i giudici della Corte d’Assise d’Appello questa prova è di massima rilevanza “costituendo una sorta di ‘interpretazione autentica’ degli eventi accaduti e che riscontra anche quanto fu riferito in passato dal collaboratore di giustizia Francesco Pino, proprio rispetto a quella riunione che, valutano i giudici, sarebbe stata solo “un incontro ‘di facciata’ organizzato solo per mettere tutte le famiglie dinanzi al fatto compiuto (l’adesione alla strategia stragista, ndr), essendo stata già in realtà la decisione presa ai livelli ‘ndranghetistici più elevati, anche per i loro contatti con gli apparati della Massoneria e dei Servizi Segreti, livelli costituiti, come anche il presente processo ha dimostrato, dalle famiglie De Stefano-Piromalli-Mancuso, ossia dalla triade che dominava le dinamiche criminali più eclatanti”.
* ANTIMAFIADuemila, 03/03/2024
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