Un viaggio in Calabria utile alla conoscenza e al contrasto della ‘ndrangheta attiva in Toscana
Polistena è una piccola cittadina di quasi 10.000 anime collocata ai piedi dell’Aspromonte, nella piana di Gioia Tauro che si snoda dalla montagna al mare, immersa tra distese di piante di olivi secolari e piantagioni di mandarini e arance.
La prima contraddizione è proprio il contrasto tra la bellezza della natura e le devastazioni compiute dalle mani dell’uomo.
La dimostrazione più grande è il porto di Gioia Tauro, per anni inutilizzato, oggi diventato il primo luogo in Italia per il traffico internazionale di stupefacenti, per la cui realizzazione sono state distrutte migliaia e migliaia di piante di arance e mandarini, snaturando cio che la natura aveva creato.
Già nel viaggio dalla stazione di Rosarno a Polistena, all’ostello Gianni Laruffa costruito sul bene confiscato alla famiglia dei Versace che oggi ospita il centro don Pino Puglisi, Antonio, della cooperativa sociale della Valle del Marro, ci stimola alla riflessione. “Se non si riesce a capire la mentalità di uno ndranghetista, il suo attaccamento e radicamento a questa terra e alla famiglia, la sua capacità anche in altre aree di mantenere forte il legame di sangue e di territorio, non si potrà combattere la ‘Ndrangheta e si uscirà perdenti. Dovete partire da qui, da questa terra e dalle sue contraddizioni”, ci dice.
Già il primo incontro con don Pino Demasi, parroco di Polistena da 40 anni e referente di Libera della Piana di Gioia Tauro, e con Enrico Fontana, responsabile dell’osservatorio legalità e ambiente di Legambiente, chiarisce l’evoluzione della ‘ndrangheta fino ai nostri giorni: “Qui in questa piana hanno avuto origine le prime famiglie di ‘ndrangheta, nate come mafia agricola per il controllo del territorio. La ‘ndrangheta subisce una prima trasformazione negli anni tra il 1960 e il 1980, grazie soprattutto ai sequestri compiuti che permetteranno a molte famiglie di arricchirsi e di accumulare capitali da investire nel traffico di stupefacenti. In quegli anni furono sequestrate circa 500 persone in tutta Italia e portate in Aspromonte”.
Le persone portate qui venivano spostate molto spesso all’interno della montagna e portarono al pagamento di grandi cifre che permisero un arricchimento veloce e sicuro. Molte persone purtroppo non hanno fatto ritorno a casa anche se il riscatto era stato pagato.
Si era creata una vera e propria filiera criminale che dal nord permetteva di rapire, trasportare e tenere sequestrate per lungo tempo queste persone. Ciò dimostra che la ‘ndrangheta era già presente anche al nord con una minima organizzazione.
L’accumulo di capitali e il loro reinvestimento principalmente nel traffico di stupefacenti danno il via alla nascita di una nuova ‘ndrangheta, che potremo chiamare imprenditrice, che inizia ad avere contatti con pezzi dello Stato.
Siamo in un momento in cui il sud (e la Calabria in particolare) ha avuto uno sviluppo economico e industriale distorto (i moti di Reggio Calabria e la successiva nascita del Porto di Gioia Tauro e dellla promessa e mai costruita quinta acciaieria d’Italia ne sono la più chiara dimostrazione), che spinge le famiglie di ‘ndrangheta, da un lato, a cercare consenso e sudditanza nei propri territori di origine e dall’altro ad avere i primi rapporti e interessi economici anche al di fuori della propria terra.
Grazie a questa svolta la ‘ndrangheta inizia ad occupare spazi anche relativi all’azione politica. Una mafia imprenditrice che può contare anche sui soldi dello Stato e dei finanziamenti europei grazie al rapporto con la politica, farà della ‘ndrangheta con il passare del tempo, la mafia più forte.
Appare chiaro da subito come il modello economico neoliberista che dagli anni ’80 si è sviluppato anche in occidente, che spinge alla ricerca del successo individuale da un lato e alla ricerca del massimo profitto nelle attività economiche dall’altro, sia il modello perfetto per favorire la mentalità mafiosa basata sul denaro e sul potere.
La ‘ndrangheta ha però sempre bisogno del consenso, che trova solo nel proprio territorio, non nei luoghi dove va a fare affari. Il radicamento e il riconoscimento del proprio potere nella terra d’origine sono aspetti insostituibili nella mentalità ‘ndranghetista, insieme all’indissolubilità del legame familiare.
Sono le stesse caratteristiche che le persone che vivono anche in altre zone d’Italia, ma legate a vincoli familistici e di appartenenza alla ‘ndrangheta, cercano di portare all’interno delle aree dove operano.
Anche nella nostra Toscana, anche nel nostro Valdarno.
E se da una parte noi non siamo preparati a questo modo di essere e di fare, dall’altra siamo disponibili, perché intrisi anche noi dalla ricerca del massimo profitto e della massima soddisfazione individuale, ad accettare che tutto questo nel tempo, con altre modalità e forme, si diffonda anche da noi.
D’altronde se pensiamo all’indagine Keu, non sono stati forse gli imprenditori del cuoio a cercare delle aziende che permettessero loro di smaltire rifiuti speciali e pericolosi con il massimo risparmio di soldi, senza interessarsi di xome quei rifiuti venissero smaltiti?
Appare chiaro che il nostro sarà un soggiorno forte, intenso, dai tanti interrogativi e dalle grandi contraddizioni.
Ed è proprio un imprenditore, Antonino De Masi, a farci rendere conto di alcune delle tante contraddizioni che favoriscono lo sviluppo delle mafie.
Antonino De Masi vive da 12 anni sotto scorta per aver denunciato dranghetisti legati al boss Crea ed essersi rifiutato di pagare il pizzo. Crea ha condannato a morte lui e la sua famiglia. Alla sua azienda, nella zona dell’interporto di Gioia Tauro, si arriva dopo aver attraversato un presidio dell’esercito posto davanti al suo cancello.
“Vi dovete rendere conto – racconta De Masi – che quanto è successo qui in Calabria può succedere anche da voi, come ci dimostra anche l’Emilia. La ‘Ndrangheta ha cercato di impadronirsi dell’economia producendo un danno che non si vede. C’è una domanda di illegalità da parte del mondo imprenditoriale e si rischia di normalizzare una domanda di illegalità. Ma la prima azione è quella di bellare il nostro egoismo. Io mi sono ribellato e ho deciso di fare la guerra ed ho messo nelle mani dello Stato la mia famiglia. Per me il concetto di libertà e del bene pubblico contano più dei soldi e combatto per riprenderci questi valori. Le nostre sono storie che hanno un valore“.
Mi viene da pensare ad Antonino De Masi come a un partigiano dei nostri giorni, insieme a lui il figlio che ha deciso di continuare l’azione del padre.
Siamo in una terra devastata e soffocata dalla ‘Ndrangheta, dove non esiste paese o territorio che non debba fare i conti con questa organizzazione criminale, ma al tempo stesso ricca di tanti esempi di ribellione, di lotta, di contrasto che stanno producendo esperienze molto belle positive.
Come l’esperienza degli amministratori di San Giorgio a Morgeto, a pochi chilometri da Polistena, e di Cinquefrondi, entrambi collocati dentro al parco nazionale dell’Aspromonte, giovani sindaci e assessori che stanno recuperando i loro centri storici dopo anni di abbandono, perchè anche le case abbandonate e la mancanza di decoro sono forme di occupazione del potere da parte della ‘Ndrangheta. Un modo di dire che lì comandiamo noi.
In molti casi si assiste a percorsi di liberazione dalla mentalità mafiosa ‘ndranghetista, come in questi piccoli comuni con il recupero di beni confiscati, la nascita di centri antiviolenza o di centri di accoglienza di migranti, del lavoro di giovani riuniti in associazioni per il recupero e la valorizzazione della storia, del paesaggio, delle tradizioni di questa terra.
Ma al tempo stesso, a pochi chilometri di distanza si assiste allo scempio umano della tendopoli di San Frediano, dove tanti giovani di colore, braccianti agricoli, sono costretti a vivere in condizioni disumane, nel silenzio di tutti e nello scempio compiuto da leggi che privano le persone dei più semplici diritti.
Contraddizioni che si legano ad altre contraddizioni come accade in Aspromonte, ai più conosciuta come la montagna dei sequestri, ma che si scopre essere una montagna dalle bellezze naturalistiche uniche, terra di congiunzione tra Mar Jonio e Tirreno, ma anche di insediamenti greci e romani, di battaglie storiche come quella dello schiavo Spartaco contro la repubblica di Roma, in quella che guarda caso, era stata una battaglia di tanti schiavi fuggiti dalla schiavitù per aspirare a diventare uomini liberi.
Essere uomini liberi è anche la storia di Antonio, Domenico, Marina, Giacomo, soci fondatori della Cooperativa Sociale La Valle del Marro, che a dicembre di quest’anno compirà 20 anni di vita, che ci ospita e che è un presidio di libertà dalla mentalità mafiosa che pervade questa terra.
È Domenico che ci spiega come la Valle del Marro sia stata una scelta di libertà: “Fare memoria di ciò che è accaduto, ci rende quelli che siamo con esperienze, delusioni e traguardi raggiunti. Si deve partire da lontano, da quando eravamo bambini. Il palazzo dove sorge oggi l’ostello che vi ospita, era il luogo di vita delle famiglie di ‘ndrangheta di Polistena. In quel palazzo era il potere della ‘ndrangheta. Il bar accanto, gestito da loro, negli anni 80, si chiamava bar 2001. Era un modo di dire che loro ci sarebbero stati sempre. Quello era il periodo delle faide per la gestione dell’eroina, un periodo dove vigeva anche il coprifuoco dalle 20.30. Erano anni bui e la nostra vita di ragazza era complicata. L’unico luogo normale era la parrocchia. Siamo nati e cresciuti lì, con don Pino Demasi. Ma noi dovevamo essere i protagonisti di questa terra e lui ci ha aperto gli occhi. Davanti a noi avevamo queste strade: andar via, fare qualcosa di nuovo, altrimenti accettare la mafia”.
“Restare per cambiare e cambiare per restare – continua Domenico – è stata la nostra frase. Ma nel contempo i nostri genitori ci dicevano: fatti i fatti tuoi che campi cento anni, che è la cultura che ha fatto nascere e sviluppare la ‘ndrangheta. Occorreva disubbidire. Noi ci siamo presi questa responsabilità e con il progetto Libera Terra, dopo qualche anno, abbiamo visto che esisteva una vera opportunità. Nasce da lì la possibilità di essere liberi e scegliere di stare nella nostra terra. Oggi, nonostante gli incendi dei campi, la rovina dei mezzi agricoli che la ‘ndrangheta ci ha arrecato, gestiamo oltre 100 ettari di terreno, produciamo olio, agrumi, peperoncino tutto biologico diamo lavoro stabilmente e legalmente in media a 15 persone”.
Liberarsi personalmente e liberare culturalmente la propria terra è quanto hanno cercato e cercano di fare ogni giorno persone come Antonino Morabito di Legambiente, che ha le idee chiare su come occorre agire: “Il primo punto di contatto con l’illegalità è il modello economico del profitto. Questo modello apre porte enormi alla criminalità organizzata. Il profitto non mette al centro il nostro benessere, ma l’idea di avere sempre di più. Per raggiungere il massimo profitto nel minor tempo possibile non si guarda in faccia niente e nessuno. Questo modo di essere indebolisce fortemente il nostro modello democratico perché si smette di pensare al diritto come modo di dare voce e di dare sostanza ai bisogni dei più deboli. Perdere di vista il potere del diritto è una delle conseguenze della teoria della ricerca del profitto come modello. Chi fa il crimine organizzato ha bisogno di una società dove non si persegue il diritto per tutte le persone“.
A riportarci all’attualità e al legame che esiste nel fenomeno ‘ndranghetista tra Calabria e Toscana è il giornalista del “Quotidiano del sud” Michele Albanese, che da oltre 10 anni vive sotto scorta per le inchieste che svolge da molti anni in questa terra: “Il centro decisionale della ‘ndrangheta è ancora qui. Le grandi famiglie si vedevano fin dal dopoguerra per derimere conflitti in Aspromonte, vicino al santuario di Polsi. Poi negli anni ’70 nasce la Santa con una struttura verticistica, per sostituire i vecchi boss, contrari alla scelta del traffico di stupefacenti, che vengono quasi tutti eliminati. Nasce in quegli anni anche il legame con la massoneria deviata, con una forma di potere trasversale tra politica, imprenditori, massoneria deviata e ‘ndrangheta che ha fatto fare il salto di qualità. Si sviluppa la ‘ndrangheta imprenditrice o massondrangheta. Fino agli omicidi di Duisburg in Germania nel 2007, si ha anche un vuoto giudiziario di indagini. Proprio la Santa permette alla ‘ndrangheta di fare business in tutti i campi, conquistando spazi immensi”.
“La ‘ndrangheta – spiega Albanese – si sviluppa in Toscana, grazie al modello Gioia Tauro; viene esportata la metodologia degli appalti in alcuni settori produttivi tra cui l’edilizia, il movimento terra e lo smaltimento rifiuti industriali. A questi si aggiunge il traffico di stupefacenti, soprattutto con il porto di Livorno. Così si sviluppa la terza fase della ‘ndrangheta che chiamerei 3.0. La cocaina vale circa 90 miliardi di euro l’anno. Oggi molti soldi vengono investiti nel gioco d’azzardo. Tutte le attività del mondo illegale mafioso fruttano circa 150 miliardi, soldi che vengono riciclati e reinvestiti in tutta Europa. Ogni anno, sempre di più, questa economia criminale determina e condiziona non solo il nostro paese. E ci si avvicina sempre più a quella che io chiamo la ‘ndrangheta 4.0, attraverso un sistema collegato con il mondo imprenditoriale, delle professioni, politico, finanziario, e che si svilupperà ancor più con l’intelligenza artificiale comprando coloro che vi lavorano e sviluppano nuove tecnologie”.
Calabria e Toscana si legano anche grazie alla figura di una vittima innocente delle mafie, Giuseppe Valarioti, giovane consigliere comunale del PCI, ucciso dalla ‘ndrangheta a Rosarno l’11 giugno del 1980 al quale il comune di Terranuova Bracciolini ha deciso di intitolare il capannone recentemente ristrutturato e confiscato al ‘ndranghetista Giuseppe Priolo, legato alla famiglia dei Piromalli.
Il destino ha voluto che durante la nostra visita a Polistena, venerdì 1°marzo, sia stata inaugurata una targa fuori dalla sua casa a Rosarno, e che ciò ci abbia permesso di partecipare alla cerimonia e reincontrare i familiari di Valarioti che lo scorso 20 gennaio avevano preso parte alla intitolazione in Valdarno.
Abbiamo così avuto modo di visitare le stanze dove viveva Giuseppe, vedere il suo studio, i suoi libri, lì dove aveva maturato la sua scelta di combattere la ‘ndrangheta e di dedicarsi al sindacato e ai diritti dei braccianti e dei lavoratori.
L’ultimo momento di riflessione prima del nostro ritorno in Valdarno lo offre proprio colui che più di tutti lega insieme Toscana e Calabria grazie alle indagini da lui condotte in quella che è chiamata “indagine keu”, che vede così fortemente coinvolta anche la nostra terra.
Si tratta di Giuseppe Creazzo, fino ad un anno fa Procuratore Generale di Firenze e capo della DDA della Toscana, oggi tornato nella sua Calabria al Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria.
“In Toscana – racconta Creazzo – abbiamo scoperto che le attività illegali venivano portate avanti da persone legate al fenomeno mafioso con la stessa filosofia che esisteva qui. Ricordo indagini svolte, per esempio, nel settore agricolo nel grossetano denominata “blumais” dove dei terreni coltivati a mais erano stati contaminati da idrocarburi spanti nei campi. Oppure il traffico illecito di rifiuti delle cartiere di Lucca che arrivavano in Basilicata per essere smaltiti in fornaci grazie ai servizi resi dalla camorra napoletana. Oppure l’inchiesta “Vello d’oro” che vedeva coinvolti tre imprenditori toscani in accordo con la famiglia dei Lizza di San Luca attraverso un giro di fatture false. Poi l’inchiesta keu, che forse per la prima volta ha fatto capire come la ‘ndrangheta sia presente nell’economia Toscana, non solo con lo smaltimento illecito di questi rifiuti speciali ma anche con gli scarti della lavorazione dell’oro. Si è capito come la Toscana fosse terra di conquista per il mondo mafioso“.
Ecco perché dal coordinamento di Libera e dalla sezione di Legambiente del Valdarno ci siamo mossi fino alla piana di Gioia Tauro, per conoscere più da vicino la mentalità della ‘ndrangheta qui dove è nata e dove ancora in modo forte esiste e fa sentire la sua forza.
Oggi affidiamo questo racconto e resoconto a tutti coloro che avvertono il rischio che la nostra terra corre e vogliono impedire che l’illegalità prenda il sopravvento, siano essi semplici cittadini, amministratori, imprenditori, professionisti, uomini della cultura e della politica.
Al tempo stesso da questa terra ricca di contraddizioni, ma anche di tanta bellezza, parte anche un messaggio bellissimo di resistenza, che viene da ogni parte della società, dai giovani, dal mondo imprenditoriale, delle istituzioni, della chiesa, del mondo associativo. Un modello da conoscere e da seguire, da invitare nei nostri territori perché ci aiuti nel nostro cammino di contrasto alle mafie.
Di una cosa siamo certi, perché tutti coloro che abbiamo incontrato in vari modi ce lo hanno detto: questo modello economico tendente al profitto come valore superiore è il modello preferito dalle mafie, quello che le permette più di tutti di arricchirsi e di muoversi nell’illegalità.
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Libera Toscana seguirà passo dopo passo tutte le fasi processuali dell’inchiesta Keu
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