La resistenza interiore. Non rassegnamoci: il mondo non è soltanto il male che vediamo
Sarà la guerra. Sarà Gaza. Sarà questa ondata di pavidità. Sarà questa fetida aria di Putin. Sarà il ritorno dei manganelli. Ma sento una voglia incontenibile di belle persone.
Una volta si usava proprio questa espressione. Per indicare non persone piacenti, curate, eleganti. Ma persone semplici, gentili, accoglienti, capaci di gesti solidali o coraggiosi. Sorridenti e con la schiena diritta.
Ecco, sulla scena pubblica mancano, se ne vedono di meno. E questo inaridisce gli orizzonti, accentua le solitudini. Al punto che, udite udite, mi sono scoperto ad ascoltare più volte il “mondo migliore” di Vasco, come a cercare nella musica quel che manca alle rappresentazioni del mondo oggi vincenti.
Così arriva qui la mia dichiarazione politica, che mai avrei immaginato un giorno avesse un qualunque potenziale rivoluzionario. Ed è questa: la società globale, dell’informazione di massa e dei social, ci chiama, tra le tante forme di resistenza, anche a una originale “resistenza interiore”, a non abituarci all’idea che il mondo sia solo fame, malattie, devastazioni, guerra, corruzione, violenza sui minori o femminicidi o stragi in famiglia (possibili varianti: i successi sportivi e il festival di Sanremo).
Tutti fenomeni veri, ma il cui intreccio ossessivo rischia di deporre un manto totalitario intorno al mondo, facendo perdere a chi lo abita la fiducia nel futuro, nella possibilità di contare qualcosa. Noi formiche impotenti, in mano a poteri politici, economici, militari e religiosi, e in più assediati dal basso da una crescente povertà educativa. Con poche belle persone intorno.
Difficile pensare, convengo, che questo abbia a che fare con la politica, con le grandi lotte civili, in un mondo tanto incerto e apparentemente aperto a ogni esito. Ma vedete, nei suoi “Scritti corsari” Pasolini affermò una cosa importante e dimenticata. Disse che durante il fascismo la società italiana era rimasta pressoché uguale a se stessa. Possibile? Con la fine della democrazia, con Matteotti, i dissidenti uccisi e i processi politici, l’uomo solo (e dal torso nudo) al comando, lo Stato che si dava un’organizzazione di massa, e poi la scelta sciaguratissima della guerra: come si poteva dire che la società fosse rimasta fondamentalmente uguale a prima?
Ma Pasolini pensava alla vita, ai costumi, ai valori quotidiani degli italiani, al sostrato resistente e intessuto di finzione, quello di Amarcord di Fellini, che neanche l’olio di ricino riuscì ad abbattere. Gli italiani li cambiò invece la televisione, allora sì che arrivò la mutazione antropologica. Nel nuovo contesto di pace e democrazia cambiò davvero tutto: ma silenziosamente e in profondità.
Così vorrei dire di oggi. Non sarà tanto la globalizzazione vera, con tutti i suoi problemi duri e anche sconvolgenti, a cambiarci. Ma sarà la sua “pacifica” rappresentazione. Per effetto dei fatti che siamo portati a selezionare e a servire alle nostre emozioni e alla nostra ragione.
Nelle case popolari di “C’è ancora domani”, il bel film di Paola Cortellesi, le donne che parlano e spettegolano scorgono il buono e il cattivo di ciascuno, il mondo per loro non è una sequenza indefinita di mali. Resistono. Mantengono un loro tessuto sociale. Per questo sono pronte a passare dal cortile delle ciance e delle maldicenze alle urne del suffragio universale venuto a liberarle.
Incapaci di selezionare, noi rischiamo invece di non vedere più il buono, pur sapendo che esiste. Ma ciò non resterà senza conseguenze: persone impaurite e diffidenti pronte ad aumentare la “percezione” negativa di qualcosa, di qualsiasi cosa.
Senza colonne a cui appoggiarsi, senza fede in nulla, nemmeno nella propria ragione. Questa è la resistenza (e guai a chi dice “resilienza”!) alla quale siamo chiamati.
Prendiamoci oggi la responsabilità di ricostruire il nostro immaginario collettivo. Poi arriverà il resto.
Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 26/02/2024
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