Dopo Mostar, trent’anni di Fondazione Luchetta
Il 28 gennaio 1994 tre inviati Rai, Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Alessandro Ota vengono uccisi a Mostar da una granata.
Dopo quel tragico evento è nata la Fondazione Luchetta.
Quella che segue è l’ntervista a Daniela Schifani Corfini, vedova di Marco Luchetta.
Quest’anno ricade il 30esimo anniversario della morte dei tre giornalisti Rai di Trieste, Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Alessandro Ota a Mostar. Dopo questa tragedia, è nata l’idea di avviare delle iniziative solidali a sostegno di bambini. Qual è stata la spinta?
L’idea è nata quasi subito, dopo pochissimo tempo da quel 28 gennaio perché sotto i loro corpi era rimasto un bimbo di 4 anni, Zlatko, che si era così miracolosamente salvato grazie a quella protezione. Per cui abbiamo pensato di poter proseguire con quello che loro avevano, forse inconsapevolmente, cominciato.
Marco, Dario e Alessandro erano in Bosnia per realizzare uno speciale sui bambini vittime della guerra in corso nei territori della ex-Jugoslavia. La ricostruzione di com’era andata me l’ha riferita poi Sanela, la mamma di Zlatko. Avevano incontrato e parlato con il bimbo in un rifugio a Mostar est. Quando si sono accorti che non avevano abbastanza luci per effettuare delle riprese, sono usciti dal rifugio per andare all’auto a prenderle, ma sono stati colpiti da una granata. Zlatko, che era al rifugio con la nonna – mentre la madre era fuori in cerca di cibo – aveva passato del tempo con i tre giornalisti, e così li ha seguiti…
Sanela mi ha raccontato che Zlatko è rimasto in stato di shock per tre o quattro giorni e che quando si è ripreso da quel torpore la prima cosa che ha chiesto è stata: “Dov’è Marco?”… Evidentemente era rimasto colpito da questi tre giornalisti inviati, che gli avevano parlato e fatto domande.
Zlatko viveva da più di un anno in quello scantinato assieme ad altre 50 persone [la parte est di Mostar è stata tenuta sotto assedio dall’esercito croato-bosniaco HVO dalla tarda primavera del 1993, ndr]. Era stato seguito da una madre straordinaria, che addirittura per intrattenerlo in quell’anno gli aveva insegnato a leggere e scrivere.
Per cui tutto è nato da questo bimbo. Abbiamo pensato che se ci fossimo messi insieme – parlo al plurale perché sono stata aiutata da amici e parenti – e avessimo costituito un comitato, avremmo potuto provare a chiedere alle autorità bosniache di far uscire Zlatko e la sua famiglia da Mostar. E ci siamo riusciti, poco tempo dopo.
Zlatko è arrivato a Trieste a luglio, l’abbiamo ospitato in un appartamento preso in affitto – che è in pratica stato il primo appartamento di quello che poi è diventata la Fondazione Luchetta, Ota, D’Angelo, Hrovatin – e dopo un mese siamo riusciti a mandarlo in Svezia dove era riparato suo papà Adis, ex internato in un campo di concentramento in Bosnia. Così la famiglia si è riunita a vivere a Göteborg.
Immagino che questo risultato positivo vi ha dato la forza di proseguire. E i bambini assistiti sono diventati decine…
I primi bambini ad arrivare sono stati dei paesi dell’area balcanica, poi il nostro raggio di azione si è ampliato tantissimo. Oggi, a distanza di trent’anni, posso dire che abbiamo ospitato e curato bambini provenienti da tutte le parti più disastrate del mondo, sia per motivi economici sia per guerre e scenari spaventosi: dal continente africano, dal Medio Oriente, da paesi dell’Est europeo, anche dal Venezuela…
Vero è che la Fondazione è nata giuridicamente nel 1998, che abbiamo deciso di dedicare anche a un altro giornalista triestino, Miran Hrovatin [operatore di ripresa della Rai, ucciso con Ilaria Alpi a Mogadiscio poco meno di due mesi dopo i fatti di Mostar, ndr], ma tutto questo lo abbiamo iniziato con Zlatko nel 1994 quando eravamo un Comitato. Da allora non ci siamo mai fermati, per cui posso dire che quest’anno è anche il nostro trentesimo anniversario… tre decenni in cui, finora, abbiamo assistito 850 bambini.
Inoltre, non arrivano ovviamente mai da soli. Se contiamo anche chi li ha accompagnati, tra i quali molto spesso oltre ai genitori ci sono fratellini, zii o nonni, possiamo dire di avere accolto almeno un numero doppio di persone.
Come riuscite in questo difficile compito?
La missione della Fondazione è aiutare i bambini che non si possono curare nei loro paesi, o perché soffrono di particolari patologie, feriti in guerra o in una situazione non risolvibile nel loro paese. Dato che si parla di cure dai costi in alcuni casi altissimi, e la Fondazione non ha mai goduto di fondi particolari, queste sono state molto spesso condivise, creando cordate con altre associazioni. Noi ci siamo comunque sempre occupati delle questioni logistiche: dal farli arrivare in Italia ad ospitarli, coprire le necessità per il loro mantenimento, portarli alle terapie e così via, per tutto il tempo necessario.
Non ci riusciremmo se non avessimo i volontari, che sono stati e sono fondamentali. Senza di loro la Fondazione non sarebbe mai arrivata dov’è oggi. Ci aiutano nei modi più diversi. Per esempio, è importantissimo il lavoro volontario dei nostri autisti, cioè un gruppo di persone pensionate che ci offre una giornata della settimana a testa, in cui accompagnano il bambino alle cure, a scuola, etc. I volontari sono fondamentali anche nell’occupare le famiglie: per esempio le portano a visitare la città, a fare un bagno d’estate, a fare delle gite nelle fattorie didattiche… le attività che sono state organizzate in questi anni sono tantissime. A volte si occupano anche di trasporti più lunghi, agli aeroporti, per recuperare delle famiglie in arrivo o per portarle a prendere il volo di ritorno a casa, oppure per accompagnare il bambino in ospedali lontani da Trieste.
Infatti, noi lavoriamo principalmente con l’ospedale infantile Burlo Garofalo qui a Trieste, ma ci sono delle specialità di cui il Burlo non si occupa. Per cui abbiamo dovuto ricorrere alle cure di altri ospedali, ad esempio a Firenze, Milano, Reggio Emilia, tutti ospedali che in qualche modo sono stati contattati direttamente dal Burlo.
Per quanto riguarda le spese sanitarie, ci è impossibile coprire tutto da soli, e dipende dalla malattia. In certi casi sono intervenute anche altre associazioni, il Burlo stesso, qualche volta la Regione FVG, a seconda dell’entità dell’esborso. Ad esempio, per un trapianto di midollo si è trattato di più di 60mila euro e un’associazione così piccola come la nostra, per quanto sostenuta in tutti questi anni, non avrebbe potuto permettersi una spesa simile.
So che svolgete un altro servizio, importantissimo per tutta la città e non solo per i vostri assistiti…
Ogni mese abbiamo di media 1500 persone in condizioni di disagio economico che vengono a rifornirsi da noi, dove raccogliamo i beni donati dalla cittadinanza, dall’abbigliamento ai materiali per l’infanzia, ma anche biancheria per la casa e giochi per bambini.
A proposito di emergenza: vi siete attivati anche durante l’arrivo dei profughi dall’Ucraina?
Sì. Dopo lo scoppio della guerra, quando sono arrivate le prime famiglie scappate dall’Ucraina, la prefettura ci ha contattato per chiederci disponibilità ad ospitare dei nuclei familiari, principalmente composti dalla mamma e uno o più figli. Ci siamo resi disponibili, abbiamo fatto una convenzione come CAS [Centro di Accoglienza Straordinaria, strutture, individuate dalla Prefettura attraverso appositi bandi di gara per l’affidamento di contratti pubblici, e gestite generalmente da cooperative ed associazioni di varia natura, ndr].
Al momento stiamo ospitando una trentina di persone dell’Ucraina, con bambini che vanno regolarmente a scuola e tutta l’attività regolare di ogni famiglia. Alcuni di questi bambini mostrano particolari fragilità, e allora la Fondazione interviene con un intervento specifico.
Un’altra attività che avete avviato, ormai da vent’anni, ha a che vedere con il giornalismo…
È diventato un premio di respiro internazionale, con lavori che arrivano anche da testate estere molto accreditate, così come lavori eccezionali realizzati da freelance. Questo è un aspetto che personalmente mi piace molto, perché so che per i freelance, soprattutto oggi, è difficile non soltanto essere riconosciuti ma anche essere pagati in modo corretto. Ci arrivano dei lavori eccezionali, che non ricevono alcun riconoscimento, nonostante questi giovani si adoperino e rischino personalmente molto.
Negli ultimi due anni abbiamo anche cercato di valorizzare ulteriormente i lavori che arrivano, attraverso dibattiti in presenza dei finalisti e dei vincitori, per approfondire i temi trattati. Sono temi sempre legati all’infanzia e rispecchiano quindi il lavoro della Fondazione. Molte volte, in questi anni, sono stati persino gli stessi giornalisti che ci hanno segnalato storie di bambini da curare.
Quest’anno avete aggiunto un premio giornalistico dedicato alla rotta balcanica. Come mai?
È un’idea di Ludovico Fontana, giornalista che ha lavorato al TG Rai regionale. Prima di trasferirsi alla redazione piemontese, ci ha chiesto se eravamo disponibili a dedicare una sezione del Premio Luchetta a lavori dedicati alla rotta balcanica.
Ci è sembrata importante, per diversi motivi. Innanzitutto è una rotta della migrazione che tocca anche Trieste, e sappiamo bene come vengono trattate queste persone, quali percorsi drammatici devono sopportare prima di riuscire ad arrivare. E poi perché rispetto ad altre rotte, come quella mediterranea, è sottaciuta nonostante sia estremamente drammatica.
Lodovico si è impegnato in prima persona, organizzando anche una raccolta fondi per garantire la durata del premio. Per dare risalto a questa sezione abbiamo deciso di tenerla da parte rispetto al Premio Luchetta che si è concluso a novembre scorso, e portarla a fine gennaio quando avremmo ricordato Marco e i suoi colleghi nel trentennale dell’uccisione.
Lo faremo in due giornate di incontri. Il 27 gennaio parleremo solo di rotta balcanica, con diversi incontri e la premiazione dei vincitori. Inoltre, si terrà la cerimonia di consegna del “premio speciale” della Fondazione, che non abbiamo assegnato a novembre per lo stesso motivo. Abbiamo scelto di premiare il regista Andrea Segre, in particolare per il suo documentario “Trieste è bella di notte” e per il suo impegno di anni.
Domenica 28 gennaio, invece, lo dedicheremo interamente a ricordare Marco, Dario e Alessandro, con la proiezione di un filmato realizzato dalla sede Rai di Trieste, a cui seguirà un dibattito su un tema di estrema attualità, la sicurezza dei giornalisti inviati. Mentre in delegazione, dopo alcuni anni torneremo a Mostar il 30 gennaio, per la commemorazione organizzata dall’Ambasciata d’Italia a Sarajevo.
Il 28 gennaio 1994
Il 28 gennaio del 1994 Marco Luchetta, 42 anni, giornalista, Dario D’Angelo, 47 anni, operatore e Alessandro Ota, 37 anni, tecnico, muoiono uccisi da una granata lanciata delle forze croato-bosniache, a Mostar est. Tutti della sede Rai di Trieste, si recano in Bosnia Erzegovina per realizzare uno speciale sui bambini vittime della guerra in corso nei territori della ex-Jugoslavia. Entrano a Mostar est – parte della città controllata dall’Armija e sotto assedio da più di un anno per mano dell’HVO, esercito croato-bosniaco – sui mezzi del convoglio della Croce Rossa internazionale partito la mattina dalla vicina Medjugorije (sotto controllo dell’HVO), scortati dal contingente spagnolo dei Caschi blu.
Nei pressi del piccolo edificio adibito a ospedale, Luchetta, Ota e D’Angelo entrano al numero 82 di Braće Fejića, nel cortile di un complesso quadrilatero residenziale. Una cantina con l’ingresso dal cortile è adibita a rifugio e da mesi vi si nascondono decine di persone tra cui molti bambini. All’ingresso del rifugio, mentre si avviano all’auto per recuperare attrezzatura, un bimbo (Zlatko Omanović) li segue. Gli operatori vengono colpiti da una granata, i corpi fanno da scudo a Zlatko, che si salva. I tre operatori Rai lasciano tutti moglie e figli piccoli.
In seguito viene aperta un’inchiesta, poi archiviata, per indagare sulle responsabilità e sulla sospetta intenzionalità dell’uccisione da parte delle forze croato-bosniache. Era risaputa la presenza dei giornalisti a Mostar est, avendo passato diversi check point prima di entrare, ma la conclusione più plausibile è che siano stati vittime di uno degli intensi e quotidiani bombardamenti a cui era sottoposta Mostar est.
Nel dicembre del 1994, Paolo Vittone – responsabile dell’Ufficio internazionale della Cisl e dei progetti di solidarietà alle popolazioni dell’ex-Jugoslavia (poi divenuto giornalista di Radio Popolare Network), realizza a Mostar un video (12′) in cui include le immagini del cortile in cui morirono i tre inviati Rai.
In due diversi anniversari, sono state apposte sul luogo dell’uccisione due targhe, la prima a firma dei “cittadini della Mostar liberata”, la seconda bilingue bosniaco-italiano firmate da “La Repubblica Italiana e la Città di Mostar”.
Nel ventennale, a Trieste è stato intitolato a loro tre e a Miran Hrovatin il giardino comunale di piazzale Rosmini.
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* Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
Trieste 27/28 gennaio, le giornate della XX Edizione del Premio Luchetta
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