Il taglio dell’IRPEF e il debito pubblico
“Il nostro problema si chiama debito e va a tenuto sotto controllo o questo Paese non ce la fa”. La frase è stata pronunciata recentemente da Giancarlo Giorgetti, ministro dell’economia e delle finanze.
In un Paese normale si potrebbe dire che è la scoperta dell’acqua calda, ma in Italia invece fa notizia, poiché spesso la classe politica preferisce far finta che il debito pubblico non sia un problema reale. Anzi, per ragioni elettorali spesso si preferisce puntare sul taglio delle tasse, salvo poi essere costretti ad aumentarle, poiché altrimenti il debito pubblico va fuori controllo.
Di solito il lavoro “sporco”, quello impopolare, per risanare i conti pubblici viene affidato a governi o ministri tecnici. Quando la nave delle casse pubbliche è piena di falle, i politici di solito lasciano volentieri il posto ad altri timonieri: Ciampi, Dini, Padoa Schioppa, Monti, Draghi, ecc. Rattoppata la barca, ritornano i politici di professione, che ripropongono le solite promesse di tagli alle imposte e bonus a pioggia. Perché per fare politica non si può essere impopolari e servono i voti per essere rieletti.
Si può spiegare soltanto in questa prospettiva la riduzione delle aliquote (da 4 a 3) e di conseguenza delle imposte sui redditi delle persone fisiche (IRPEF) per il 2024. Infatti è previsto un taglio delle tasse per i contribuenti, da un minimo di 75 euro ad un massimo di 260 euro.
Questa misura viene indicata come un aiuto ai redditi medio-bassi, ma in realtà lo sconto pieno di 260 euro si applica soltanto a partire dai 28.000 euro. Secondo i dati ISTAT il reddito medio dei contribuenti italiani è di 27.000 euro, il che significa che il beneficio maggiore del taglio delle imposte va a favore dei redditi che superano la media.
Questa riduzione delle imposte costa 4,3 miliardi di euro per l’anno 2024, risorse sostanzialmente a deficit, che di conseguenza andranno ad alimentare il debito pubblico.
Per gli anni successivi, se si vorrà mantenere questa riduzione di tasse, bisognerà trovare altre fonti di entrata (nuove tasse?) oppure aumentare ulteriormente il debito. Davvero vale la pena utilizzare 4,3 miliardi di euro per fare uno sconto fiscale relativamente piccolo soprattutto per chi è sicuramente tra i più abbienti?
È appena il caso di ricordare che ogni incremento del debito comporta un aumento degli interessi, cioè di fatto uno spreco di risorse pubbliche, che meglio si sarebbero potute utilizzare per contrastare le disuguaglianze, investire nella scuola, migliorare la sanità, ecc. In altre parole, chi governa dovrebbe porsi con maggiore attenzione la necessità di diminuire il debito, sia perché libererebbe risorse per gli investimenti e per le spese pubbliche, sia per non caricare pesi eccessivi sulle prossime generazioni.
Mentre il ministro Giancarlo Giorgetti sembra ben consapevole del problema, la coalizione di cui fa parte va in direzione opposta. Infatti nei documenti di programmazione economica e finanziaria è previsto nei prossimi anni un aumento del debito pubblico italiano in rapporto al Prodotto Interno Lordo (PIL).
Non si tratta di un destino ineluttabile. La Svezia, per esempio, nell’arco di 3 decenni è riuscita a dimezzare il proprio debito in relazione al PIL: dal 70% al 35% attuale. L’Italia ha attualmente un rapporto debito/PIL superiore al 140%, cioè il quadruplo degli svedesi.
Viene da pensare che in Svezia il debito “buono” sia quello che scende e che tutti i governi siano andati nella stessa direzione nell’interesse del Paese. In Italia, nonostante abbiamo il debito pubblico più alto d’Europa, si prosegue invece sulla via dell’aumento, in modo assai poco responsabile.
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