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Presepi di guerra. Nel ’68 e nel 2003 seppi come fare. Ora attendo una “pedata di Dio”

Nando dalla Chiesa il . Cultura, Diritti, Giovani, Guerre, Memoria, Società

Lunedì 25, quando un nuovo Natale avrà fatto irruzione nelle nostre vite, i giornali non usciranno. E dunque userò questo lunedì 18 per farvi gli auguri come penso sia giusto.

E perché non suonino retorici userò un’immagine generosa ma dalla scorza dura. Quella, tipica di don Luigi Ciotti, della “pedata di Dio”. Gliela sentii usare la prima volta nel 2010 (o 2011) a Genova mentre concelebrava una messa sui diritti umani con don Andrea Gallo. Per dire che Dio è misericordioso ma che, da padre burbero, ci chiede di fare sempre di più di quel che facciamo (“il morso del più”), non acquietandosi di orazioni o farfugliamenti rituali. A volte, spiega don Luigi, le sue robuste pedate ci aiutano anzi a essere all’altezza dei nostri doveri morali e sociali.

Forse senza accorgermene presi dolcemente quella pedata quando a diciannove anni finii di allestire, come toccava a me ormai da tempo, il presepe di casa. Una creazione laboriosa e ispirata che si rinnovava ogni volta con le luci intermittenti, lo specchietto deputato a fare il lago, le statuine che arrivavano dalla mia infanzia sempre più numerose di Natale in Natale, il muschio vero e le scale di sughero intagliate da mio padre. La contemplai alla fine anche quella volta con piccolo orgoglio.

Eppure quella volta mi accorsi come per illuminazione che le mancava qualcosa. C’era la guerra in Vietnam e quel presepe invece di portare con sé lo scandalo di Gesù in terra pareva fatto per animelle tiepide. D’incanto lo smontai e lo riempii di foto tratte dai giornali e incollate su cartoni verdi. Qui i bombardamenti sul Vietnam martoriato, qui i carri armati sovietici che occupano Praga, lì l’invasione della pubblicità (ancora non immaginavo che cosa sarebbe arrivato!) fatta apposta per offrire il “suo” Natale alle coscienze addormentate del mondo.

Cambiò tutto. Mi sentii narcisisticamente diverso. Il ’68 non era arrivato invano per la nostra generazione. Cose minime, minuscole, ma di cui si riempie alla fine il mare della nostra esistenza.

Ricevetti forse quella pedata anche nel Natale del 2003. Mascherata dal dizionario dell’ipocrisia, era tornata la guerra. L’Afghanistan, l’Iraq. Nel frattempo ero diventato padre di due giovani creature inquiete, che contestavano quella guerra e con essa il parlamento di cui facevo parte, che le aveva approvate.

Di nuovo mi sentii inadeguato quando schierai sul pavimento quel meraviglioso popolo di statuine. Mi chiesi se potessi presentare ai miei figli oltre che a me stesso un presepe senza segni di quanto stava accadendo. Svuotai dunque la grotta del Bambino, feci fare marcia indietro alle statuine, che si inerpicarono sugli scaffali della mia libreria lasciando vuota Betlemme alla volta di una località sconosciuta e lontana dove, sotto altre stelle, si sarebbe realizzata per protesta la nuova Natività.

E ora? Ora che sono nonno, come allestire presepi “giusti” per i miei nipotini, ai quali il Natale dovrebbe portare solo la gioia del mondo? Come rispettare quel loro diritto a vivere felicemente mentre in altri luoghi, non così lontani, creature innocenti quanto loro muoiono a migliaia sotto i nostri occhi?

Sì, sento di avere di nuovo bisogno della pedata di Dio. Non posso deporre accanto o dentro la grotta le foto della tragedia senza togliere il sorriso a chi è senza colpe. Né voglio rinunciare a quella pienezza di libertà sessantottina che mi portò più di mezzo secolo fa a condannare gli aerei da guerra americani e i carri armati sovietici, benché il mondo stesse pigramente e implacabilmente con gli uni o con gli altri.

Attendo quella pedata di Dio. Per me anzitutto. Ma anche per gli altri, per noi, affinché sappiamo diventare davvero uomini e donne di pace in nome di chi ci è caro più di tutti. Attendo un’idea che mi aiuti a rinunciare all’oblio complice, mentre racconto la favola più dolce e magica della nostra vita.

Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 18/12/2023

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