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“Quello che può fare un pacco di pasta. La legge sui beni sequestrati alla mafia”

Gian Carlo Caselli, Stefano Caselli il . Cultura, Economia, Giustizia, Mafie, Memoria, Sicilia

Dieci date per altrettanti capitoli, passando dalle Brigate rosse alla mafia siciliana, dalla strage del cinema Statuto al ‘processo del secolo’ contro Giulio Andreotti, e ancora il Csm e la ’ndrangheta al Nord, fino ad arrivare alle polemiche sulla Tav. 

“GIORNI MEMORABILI CHE HANNO CAMBIATO L’ITALIA (E LA MIA VITA)” è il titolo del nuovo libro di Gian Carlo Caselli scritto con Stefano Caselli e pubblicato da Editori Laterza che, grazie all’utilizzo di una serie di date simboliche legate a fatti epocali, racconta gli ultimi cinquant’anni di storia italiana che sono strettamente intrecciati con la biografia, non solo professionale, di un testimone senza dubbio unico nel panorama della magistratura e della società italiana.  

In accordo con gli autori e per gentile concessione di Editori Laterza, Libera Informazione è lieta di pubblicare un abstract dal libro tratto dal capitolo 8 che ricostruisce la nascita della legge 109/1996 che consente il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle organizzazioni mafiose.


Cap. 8

Quello che può fare un pacco di pasta

7 marzo 1996. La legge sui beni sequestrati alla mafia

Un pacco di pasta e una bottiglia d’olio. Ogni volta che entro in una scuola me li porto dietro. E ogni volta che li appoggio sulla cattedra o sul tavolo, noto sempre lo sguardo un po’ sorpreso soprattutto dei ragazzi più giovani, che si chiedono come mai un signore venuto a parlare di mafia e antimafia si porti dietro proprio quella roba.

Quando poi brandisco il pacco di pasta proclamando: “Ragazzi, questa è la legalità!”, lo stupore diventa malcelata preoccupazione per il mio… equilibrio mentale. Ma tutto ciò dura un attimo, il tempo di raccontare una storia che nasce ventisette anni fa.

È il 10 marzo 1996, l’Italia è nel pieno della campagna elettorale che nel giro di poche settimane si concluderà con la vittoria dell’Ulivo di Romano Prodi. La politica si mangia quasi tutto, rimane poco spazio per altro.

Di quanto accaduto in Parlamento pochi giorni prima, il 7 marzo 1996, è difficile trovare notizia, eppure si tratta di un evento davvero storico, l’approvazione della legge numero 109/96, che nell’intestazione recita: “Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati”. Sequestrati alle mafie.

Una legge fondamentale che si deve principalmente alla tenacia di don Luigi Ciotti, il fondatore del Gruppo Abele prima e di Libera poi, che nel corso del 1995 si fece promotore della raccolta di un milione (!) di firme per far approvare, finalmente, una legge per il riutilizzo sociale e istituzionale dei beni mafiosi sequestrati e confiscati.

E il modo più efficace per indebolire la mafia è metterle le mani in tasca: il potere economico è in cima ai pensieri mafiosi. Andare in galera è un male, ma si sopporta. Intollerabile è che si tocchino i “piccioli”.

Perché cumannari è megghiu ca futtiri (e dopo le storie del grande Andrea Camilleri non serve traduzione…).

Detto oggi sembra un’elementare analisi della mentalità mafiosa. Eppure fu ignorata per decenni.

Il primo a farsene carico fu Pio La Torre, palermitano classe 1927, sindacalista, parlamentare del Pci dal 1972 e segretario regionale del partito, autore di un progetto di legge che prevedeva il reato di associazione mafiosa e anche misure patrimoniali contro le ricchezze accumulate illecitamente. Un pericolo micidiale per la mafia: per i piccioli, ma anche per la configurazione come delitto punibile di per se stesso, indipendentemente dalla commissione di specifici reati, della “semplice” partecipazione al clan.

Un grave affronto che Pio La Torre paga con la vita (insieme all’autista di scorta Rosario Di Salvo) il 30 aprile 1982. Il 1° maggio sui giornali, tra le cronache del duplice omicidio, compare la notizia della nomina a prefetto di Palermo di Carlo Alberto dalla Chiesa, che di Pio La Torre era amico.

Ma il nostro, se pure è il Paese dell’antimafia (all’avanguardia rispetto a moltissimi altri), purtroppo ha una legislazione antimafia che spesso è quella del “giorno dopo”.

Così, per approvare il progetto di Pio La Torre, facendone appunto la legge Rognoni-La Torre, bisognerà aspettare la morte anche di Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso a Palermo la sera del 3 settembre 1982.

Il sacrificio di Pio La Torre prima e ancor di più quello di dalla Chiesa poi, obbligano l’Italia “che conta” ad ammettere l’esistenza (prima spudoratamente negata) della mafia come organizzazione criminale e non come semplice “mentalità”, dotandosi finalmente di una legislazione antimafia specifica, cioè calibrata sulla concreta realtà.

La legge Rognoni-La Torre ottiene il primo voto favorevole dalla Camera il 7 settembre 1982, appena quattro giorni dopo la strage di via Carini.

Ed è così che l’Italia – soltanto una quarantina di anni fa, dopo due secoli di mafia: è bene ricordarlo – si dota di quello strumento (l’articolo 416 bis del codice penale, associazione di stampo mafioso) senza il quale, ebbe a dire Giovanni Falcone, è come pretendere di affrontare un carro armato a colpi di cerbottana. E quanto ai “piccioli”, con una novità dirompente di inversione di onere della prova: il condannato per associazione mafiosa deve dimostrare la provenienza lecita dei propri beni, altrimenti scatta automatica la confisca.

Mancava qualcosa però. I beni sequestrati alla mafia restavano inutilizzati. A coprirsi di polvere. E il mafioso aveva buon gioco a dire: vedete, quando questo bene era mio, ci guadagnavo io, ok, ma qualcosa c’era anche per voi; adesso invece niente per nessuno.

La confisca ridotta a boomerang: ed è qui che entra in gioco Libera di don Luigi Ciotti, con l’idea – dirompente – dell’antimafia sociale e dei diritti.

Già Carlo Alberto dalla Chiesa ne aveva intuito l’importanza nell’intervista a Bocca: “Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva; gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente (a caro prezzo) pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”.

Luigi Ciotti traduce in cifra operativa le parole di dalla Chiesa. Nel 1995 fonda “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” e trasforma la mobilitazione spontanea del dopo-stragi (la Palermo delle lenzuola bianche ai balconi), che andava fisiologicamente esaurendosi, in attività nazionale organizzata e permanente.

Così si possono raccogliere le firme a sostegno della proposta di iniziativa popolare sui beni confiscati. Un milione di firme, per dei volontari il cui impegno muoveva i primi passi, è stato un miracolo, ma nello stesso tempo una formidabile pressione sui parlamentari che difatti approvano all’unanimità, il 7 marzo 1996, la legge n. 109. Ed ecco che i beni appartenuti a mafiosi si trasformano in scuole, luoghi di ritrovo, campi sportivi, caserme, centri per anziani, aziende agricole gestite da cooperative di giovani e tante altre cose socialmente o istituzionalmente utili. È anche così che l’antimafia diventa una forma di aggregazione di identità soprattutto fra i giovani.

Una conquista ammirata e studiata ovunque nel mondo, un nostro “fiore all’occhiello” grazie al quale possiamo rivendicare che l’Italia è sì, purtroppo, un Paese con problemi di mafia, ma anche e soprattutto il Paese dell’antimafia che fa scuola all’estero.

Grazie alla legge 109/96, soggetti dell’associazionismo (tra cui Libera), realtà del mondo religioso, gruppi dello scoutismo e della cooperazione e altri ancora formano una rete di esperienze in grado di fornire servizi e generare welfare.

Creano nuovi modelli di economia e di sviluppo anche prendendosi cura di chi fa più fatica. Danno ogni giorno nuova vita ai beni confiscati rendendoli beni comuni.

Ecco spiegato quel pacco di pasta che tiro fuori dalla borsa quando vado nelle scuole a parlare di legalità. Perché è pasta prodotta sui terreni confiscati alla mafia, quindi la materializzazione della legalità attraverso l’esibizione di una cosa concreta, che si può vedere, toccare, persino gustare.

I ragazzi capiscono che la pasta è legalità che significa convenienza, in quanto restituzione di parte delle ricchezze accumulate dalla mafia mediante un sistematico drenaggio delle risorse del territorio e un’economia di rapina che condiziona e “vampirizza” il tessuto economico legale (a forza di estorsioni, usure, truffe, appalti truccati, tangenti ecc.). Drenaggio che ingrassa i mafiosi e i loro complici e lascia agli altri qualche briciola di elemosina, perché non alzino troppo la testa.

Il pacco di pasta, in altre parole, è la dimostrazione che l’antimafia è recupero di legalità che “paga” anche in termini di concrete prospettive di una migliore qualità della vita, di un futuro più sereno.

La pasta come manifestazione tra le più significative di quell’antimafia sociale o dei diritti che è indispensabile perché i successi della repressione si consolidino e non risultino alla fine effimeri.

La pasta come esempio di economia pulita, sana e sostenibile; come prodotto di una comunità alternativa a quella mafiosa, che non punta al profitto ma allo sviluppo sano della persona e del territorio, con una mano tesa alla tutela dell’ambiente.

La pasta – come ama dire Luigi Ciotti – con una vitamina in più: la vitamina L come legalità.

Abstract: Gian Carlo Caselli con Stefano Caselli, “GIORNI MEMORABILI CHE HANNO CAMBIATO L’ITALIA (E LA MIA VITA)”, Editori Laterza, Bari-Roma 2023


Gli autori

Gian Carlo Caselli è stato giudice istruttore a Torino, ha guidato la Procura della Repubblica di Palermo (subito dopo le stragi del 1992), è stato poi procuratore generale e procuratore della Repubblica di Torino. Attualmente è presidente dell’Osservatorio di Coldiretti sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare. Per Laterza ha pubblicato: A un cittadino che non crede nella giustizia (con L. Pepino); Vent’anni contro. Dall’eredità di Falcone e Borsellino alla trattativa (con A. Ingroia); La verità sul processo Andreotti (con G. Lo Forte); Lo Stato illegale. Mafia e politica da Portella della Ginestra a oggi (con G. Lo Forte).

Stefano Caselli, giornalista, scrive per “Il Fatto Quotidiano”. Ha collaborato con “Diario”, “la Repubblica”, Radio2 e Sky Tg 24. Insieme a Davide Valentini ha realizzato il ciclo di documentari Anni Spietati, dedicato alla storia delle principali città italiane attraversate dalla violenza del terrorismo degli anni Settanta. I filmati monografici relativi a Torino, Genova e Milano sono stati messi in onda dal programma “La Storia siamo noi” di Giovanni Minoli. Per Laterza ha pubblicato: Anni Spietati. Torino racconta violenza e terrorismo (con D. Valentini).


Giorni memorabili che hanno cambiato l’Italia (e la mia vita)

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