Addio Massimina. “Data” dopo “data”, la gioia dell’impegno civile con allegria
Massimina. I nomi che ci accolgono da piccoli ce li portiamo addosso tutta la vita.
E chi ci vede, chi ci incontra, si abitua ad associare il nostro nome a qualcosa.
Lo slancio, il dolore, l’altruismo, la mediocrità. Dipende da quando e come ci conosce.
Massimina (Lauriola) l’ho conosciuta ormai anziana, e a lei associo quel particolare stato di grazia della vita in cui l’innocenza si impossessa dell’età impedendole di germogliare egoismi o rassegnazione. Era un’appassionata di volontariato civile. Le piaceva fare letture di gruppo. Erano i libri il suo più grande patrimonio. Amava partecipare a corsi di formazione, anche intensi, pure in un’altra città. Diceva che si è presa l’abitudine di parlare a vanvera, e invece se vuoi cambiare il mondo devi studiare. Soprattutto in un’epoca in cui non ci sono più quelli che ti insegnano la vita.
Univa la rivolta battagliera delle coscienze alla fede modesta e fattiva della sua parrocchia in zona Giambellino, dove un pomeriggio invitava la magistrata che aveva appena scritto un libro sulla mafia o da dove una sera riusciva ad arpionare con dolcezza don Luigi Ciotti di passaggio a Milano. Voleva seminare anche nei quartieri popolari della città gli stimoli culturali del progresso civile. Pure in periferia devono arrivare, diceva. Senza mai darsi arie o mettersi un passo avanti agli altri.
Il suo sogno tenace, che spesso realizzava, era di avere “una data” dai protagonisti della vita pubblica: giudici o politici, scrittori o uomini di chiesa. Un giorno ebbi uno scatto di irritazione per questa richiesta di “una data entro il prossimo mese”. Vidi il suo viso corrucciarsi e me ne scusai subito, vergognandomene.
I ragazzi dell’antimafia milanese la amavano. Per l’impegno che profondeva, per il suo esserci sempre. Il menù delle sue “impossibilità” a partecipare era infinitamente più corto della media militante. Tra quei ragazzi Massimina sprizzava la sua innocenza. Felice di esserci. Di riuscire a combinare l’impegno civile con l’allegria che una volta, già molto oltre gli ottanta, la fece ballare in pubblico come un’adolescente.
Orgogliosa della sua vena artistica, che l’aveva portata in queste settimane ad allestire una personale dei suoi quadri che non ha potuto vedere (“Opere realizzate dalla Signora Massimina”, recita la locandina). Frequentava anche, e a pagamento, le occasioni di formazione sul crimine organizzato promosse dall’università.
Un pomeriggio di settembre concludendo una “summer school” e dovendo chiedere (come sempre) alle autorità presenti di consegnare l’attestato di partecipazione ai frequentanti, mi accorsi che il diploma che mi stava arrivando in mano era il suo. Fu un attimo. Chiesi al sindaco Sala di consegnarlo lui a una cittadina esemplare, la “più anziana delle nostre allieve”. Lei si illuminò e scese le scale dell’aula ad anfiteatro diventando gradino dopo gradino il ritratto della felicità. Non ricordo se il sindaco la baciò, certo ebbe per lei un gesto di tenerezza tra gli applausi di tutti.
Come avrete capito, Massimina non c’è più. Ha chiuso gli occhi di bambina ottantottenne in una casa di riposo, dove la raggiungevano i messaggi dei tanti che le volevano bene, e che negli ultimi giorni non riusciva più a leggere. Non è riuscita a fare i viaggi che le mancavano, per godersi i quali sarebbe stata disposta a vendere il suo appartamento.
È incredibile come persone anonime possano far brillare gli angoli anche delle metropoli, talora più di una insegna vistosa, perfino più di una scultura o di un’architettura.
Ho scritto altrove che il mondo sarebbe più bello se sapessimo riempirlo delle piccole immortalità di persone senza fama e senza gloria. Perciò dedico queste righe a tutte le massimine che anche oggi, nonostante oggi, popolano le nostre città e i nostri paesi. Compresi i più piccoli.
Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 27/11/2023
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