Mafia, corruzione, impresa
Delitti di criminalità organizzata e delitti contro la pubblica amministrazione: opinioni a confronto.
Il rapporto tra la criminalità organizzata e la criminalità economica è argomento tra i più spinosi ed attuali del nostro sistema penale, tanto da aver provocato negli ultimi anni più di un intervento legislativo. Le connessioni esistenti tra le associazioni di tipo mafioso radicate in un territorio e gli esponenti delle pubbliche amministrazioni locali sono innegabili ed incontestate.
Ma dottrina ed operatori del diritto sembrano divisi nettamente tra chi ritiene che oggi per recidere questi legami occorra estendere la legislazione antimafia ai delitti contro la Pubblica Amministrazione, ritenendo questi reati come spia del controllo della cosa pubblica da parte delle cosche, e chi pone l’accento sulla necessità di tenere distinti nettamente le norme antimafia da quelle anticorruzione, per evitare un effetto indiretto di indebolimento dell’efficacia della lotta ai gruppi criminali, ritenendo che “se tutto è mafia niente è mafia”.
Giustizia Insieme ha affidato la riflessione su questo punto centrale dell’attività di contrasto alla criminalità a due esponenti di punta di due degli uffici di Procura più coinvolti storicamente in materia, anche al fine di verificare se i due corni della riflessione siano – e in che misura – influenzati dal contesto territoriale di appartenenza e dalla relativa storia criminale: Ida Teresi, Sostituto Procuratore della D.D.A. di Napoli e Maurizio de Lucia, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.
Pubblichiamo oggi il primo dei due contributi.
La Redazione
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Sommario: 1. Premessa. Le spinte riformiste e le loro tesi – 2. I caratteri delle mafie secondo le più recenti indagini – 3. Le Relazioni delle Commissioni Parlamentari di inchiesta che hanno preceduto l’introduzione della fattispecie incriminatrice dell’associazione di stampo mafioso – 4. Conclusioni.
1. Premessa. Le spinte riformiste e le loro tesi
In quella fisiologica, e ciclicamente ricorrente, esigenza di rivalutazione critica di statuti normativi esistenti che connota la vita pubblica del nostro Paese risulta recentemente riproposta da più parti, sebbene con accenti e finalità diversificate, l’istanza di revisione dell’apparato legislativo destinato al contrasto e alla repressione dei delitti commessi da organizzazioni criminali di stampo mafioso e delle gravi condotte di lesione o messa in pericolo del corretto esercizio della funzione pubblica. Le questioni appaiono strettamente connesse, sia in considerazione delle caratteristiche intrinseche dei delitti contro la pubblica amministrazione – connotati, come i reati di mafia, da interesse comune alla segretezza del patto e intrinseca attitudine all’omertà – sia per il loro forte legame con i primi, che taluni tendono a sottovalutare ma che qui si vuole sostenere potersi ritenere strutturale.
Non può dirsi, invero, che si tratti di spinta riformista ascrivibile solo o prevalentemente a ragioni e colorazioni politiche, più o meno contingenti e/o connotate dagli specifici obiettivi programmatici della maggioranza parlamentare di turno; in quanto è da riconoscere una risalente e sempre vitale esigenza di rinnovata interpretazione e rielaborazione critica di tali apparati normativi, in ragione (quantomeno per i reati di criminalità organizzata) delle caratteristiche specifiche di quel complesso regolatorio di settore che ha le sue ragioni funzionali nella particolare struttura delle organizzazioni criminali di stampo mafioso ed è effettivamente qualificabile, nel suo insieme, in termini di sistema normativo di doppio binario.
Caratteristiche strutturali del fenomeno mafioso che hanno condotto, in primis, alla emanazione di una norma (l’art. 416 bis cod.pen.) che presenta in sé elementi di tipicità di necessitata ampiezza, e correlata problematicità: rispetto alla quale formulazione ci si interroga tuttora, di fronte alle tante e diversificate condotte astrattamente sussumibili, su quali siano effettivamente gli elementi di fattispecie e quali la loro ampiezza e funzione qualificatoria, quale l’applicabilità a contesti nuovi o apparentemente tali, quali le caratteristiche della condotta punibile, quale il rapporto tra violenza e corruzione e il loro rispettivo ruolo in termini di definizione del metodo e di forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo [1].
E hanno altresì prodotto il noto e travagliato percorso di ricerca nel sistema di una norma che consentisse di qualificare penalmente le condotte di coloro che forniscono un contributo causale effettivo e più o meno stabile alle organizzazioni mafiose pur non essendo intranei: pervenendosi, come noto, al riconoscimento dell’applicabilità della disciplina del concorso di persone nel reato anche ai reati associativi. Neppure può dirsi che sia una proposta di rinnovata analisi e rilettura del sistema da considerare infondata, poiché, nonostante gli indiscutibili risultati ottenuti in un trentennio di operatività della legislazione antimafia, criticità e insufficienze operative sono sicuramente da riconoscere, e da affrontare con laico realismo e attenta competenza.
Può riconoscersi pertanto necessaria una costante verifica della adeguatezza ed efficacia del sistema regolatorio, in una visione costituzionalmente orientata (e da tempo imposta anche dalla normativa sovranazionale) che tenga conto della sussistenza di effettiva adeguatezza e proporzionalità tra gli strumenti repressivi e le condotte di danno e pericolo, nel doveroso bilanciamento tra beni ugualmente tutelati; ma risulta parimenti ineludibile, nel rispetto dei ruoli istituzionali, interrogarsi sul senso, sulla portata e sulle finalità di un apparato normativo che nasce su precise basi conoscitive e ricostruttive del fenomeno oggetto di regolamentazione, al fine di rinvenire eventuali ragioni che possano fungere da argine e contenimento rispetto a dannose derive riformiste, disattente o contraddittorie dal punto di vista tecnico e assiologico.
Preoccupazione che si manifesta nella sua pienezza a fronte di ipotesi di riforma che, operando su più fronti, inducono a ravvisare un complessivo possibile indebolimento degli strumenti di contrasto alle forme più pericolose di criminalità organizzata di stampo mafioso, che fondano la propria potenza criminale non soltanto sulla violenza ma soprattutto sul legame strutturale e funzionale con segmenti deviati della politica e della pubblica amministrazione, oltre che dell’economia: interventi demolitori sul concorso esterno in associazione mafiosa, ulteriore riduzione della possibilità di incriminare le più gravi condotte di abuso da parte di pubblici funzionari, revisione della estensione delle norme sulle intercettazioni per i reati di mafia ai più gravi reati contro la pubblica amministrazione, rappresentano un combinato disposto che rischia di minare, del tutto irragionevolmente, l’efficacia delle indagini senza apportare nessun reale beneficio in termini di garanzie; e a pagarne il conto, quanto mai salato se si pensa alla attuale crisi socio-economica e alle speranze assegnate agli interventi economico-finanziari del PNRR, sarebbe ancora una volta la collettività.
Non può pertanto lasciare indifferenti la proposta di intervenire sul concorso esterno in associazione mafiosa in ragione di asserite tensioni del principio di legalità o di imperativi sovranazionali che imporrebbero riassetti normativi in termini di tassatività e certezza del rischio di incriminazione: come se potesse parlarsi di un delitto davvero di origine giurisprudenziale, nel senso di fonte alternativa a quella di stretta legalità, mentre è noto trattarsi esattamente dell’applicazione di una norma (l’art. 110 cod.pen.) della legge italiana; e come se tale sussunzione non corrispondesse alla sentita esigenza, sempre presente fino a oggi negli interventi legislativi dell’ultimo trentennio, di non lasciare fuori dall’area del penalmente rilevante condotte umane assolutamente funzionali alle organizzazioni mafiose, seppur realizzate da soggetti non intranei.
Questione che appare in tutta la sua centralità soprattutto se posta in relazione alla contemporanea progressiva attività di selezione delle condotte da ritenere effettivamente di partecipazione all’associazione realizzata dalla giurisprudenza di legittimità per comprensibili istanze di rigore qualificatorio: poiché si rischia in tal modo da un lato la restrizione dei confini delle condotte associative e dall’altro l’esclusione della punibilità di soggetti che non è possibile qualificare né come intranei (proprio e anche alla luce del maggior rigore oggi operante nella ricostruzione astratta della condotta di partecipazione) né come concorrenti esterni; sebbene essi siano a disposizione del sodalizio e portatori di contributi causali spesso particolarmente qualificati, come accade per schiere di professionisti e di imprenditori.
Ancora, in occasione di proposte di riforma della normativa in materia di utilizzo del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione [2], viene sostenuta da alcuni la irragionevolezza della estensione (operata dalla l. 9 gennaio 2019 n. 3, dopo che già la riforma del 2017 ne aveva regolamentato l’uso per tutti i delitti che consentono le intercettazioni) delle norme applicabili alle indagini per delitti di mafia anche ai più gravi tra i reati di pubblica amministrazione; in particolare, sul presupposto delle affermate differenze sostanziali tra le due tipologie di delitti, si segnala da alcuni il potenziale di invasività del captatore informatico e la sua capacità di realizzare una intercettazione itinerante che troverebbe una giustificazione per la criminalità organizzata di stampo mafioso – attesi i caratteri propri di tali organizzazioni, protette da meccanismi di omertà, e in ragione della loro eccezionale pericolosità – mentre sarebbe strumento non assolutamente necessario e comunque sproporzionato per altri pur gravi reati [3].
La tesi, muovendo dal riconoscimento del carattere “totalizzante” dei delitti della “grande criminalità organizzata”, che presuppongono attività che si svolgono in permanenza e in tutti i luoghi frequentati dagli indiziati e rendono accettabile una compressione dei diritti più intensa di quella realizzabile nelle indagini per altri pur gravi reati, conclude nel ritenere che la “devastante invasione della sfera privata realizzata dal trojan ben può essere considerata un prezzo sproporzionato e non strettamente necessario nell’ambito di una società democratica per il contrasto ai reati amministrativi…” poiché “…la proporzione, che appare certamente ricorrente nel contrasto delle attività delittuose delle associazioni criminali, risulta socialmente e giuridicamente discutibile quando il trojan è usato per i reati comuni…” [4].
Occorre allora interrogarsi sui parametri fondamentali che appaiono sorreggere tali proposizioni, invero piuttosto assertive: in primo luogo, verificando se effettivamente i caratteri strutturali tipici dei delitti di mafia (“protezione” delle condotte e dei soggetti autori grazie a meccanismi di omertà, diffusività “ambientale”, eccezionale pericolosità e allarme sociale) non siano finalmente da riconoscere anche a delitti, quali la corruzione, intrinsecamente fondati sul comune interesse dei soggetti coinvolti a mantenere comportamenti omertosi; caratterizzati dalla medesima diffusività “ambientale” tipica del fenomeno mafioso, che può rendere difficile se non impossibile l’accertamento della condotta in assenza di strumenti di investigazione maggiormente invasivi; e di eccezionale pericolosità in quanto dannosi per il corretto funzionamento dello Stato e lesivi dei suoi beni e interessi fondamentali, quali la gestione delle risorse e delle finanze pubbliche, anche di fonte sovranazionale, la somministrazione ai cittadini di servizi pubblici essenziali, espressione minima di democrazia, e la garanzia di argini contro tensioni sociali che possano derivare dalla dissipazione di denaro pubblico.
Ma soprattutto, considerata la centralità dell’affermazione di una asserita differenza o lontananza tra delitti di mafia e delitti contro la pubblica amministrazione, può essere utile chiedersi se sia proprio così oppure se, all’opposto, l’intrinseca struttura delle organizzazioni di stampo mafioso abbia in sé, costituzionalmente, una quota indefettibile di attitudine ad avvalersi strumentalmente dei pubblici poteri per affermare il proprio metodo mafioso; se, ancora e oltre, definire il metodo soltanto in termini di violenza agita o evocata ma comunque espressa sia probabilmente frutto di una non indiscutibile interpretazione della norma e di un carente approfondimento delle ragioni storiche e politico-criminali della sua emanazione, nonché delle basi cognitive e ricostruttive del dato fattuale che ne hanno determinato la specifica formulazione.
In altre parole, la sfida appare proprio quella di rimettere in discussione le reali componenti del concetto di metodo mafioso, il ruolo da attribuire alla forza di intimidazione promanante dal vincolo nella ricostruzione della fattispecie, la stessa fenomenologia attraverso cui essa può manifestarsi, e il tasso di incidenza che su di essa hanno l’attitudine e l’esigenza di avvalersi di metodi corruttivi che appaiono essere un connotato indefettibile delle organizzazioni più strutturate e concorrono a determinare quello stato di soggezione che condiziona e orienta i comportamenti di chiunque si trovi ad avere occasioni o motivi di contatto o relazione con l’organizzazione, impedendone una effettiva libertà di autodeterminazione [5]. E, tutto questo, guardando in prima battuta a come le organizzazioni mafiose vivono e operano, oggi come nel passato.
In questo processo di verifica risulta indispensabile affidarsi in primo luogo ai documenti parlamentari, posto che indubbiamente nel secolo scorso la capacità di analizzare e rappresentare la mafia è stata espressa soprattutto dalla funzione parlamentare: fatto non soltanto fisiologico e doveroso, deve ritenersi, ma anche connesso all’arretratezza operativa e al deficit culturale che a lungo ha caratterizzato il sistema giudiziario del tempo; in particolare, il riferimento è alle Relazioni delle Commissioni Antimafia che hanno offerto la più approfondita ricostruzione del fenomeno mafioso prima che le nuove regole di diritto sostanziale e processuale offrissero finalmente alla magistratura gli strumenti per accertare anche in via giudiziaria dinamiche e caratteristiche operative di quei sodalizi, contribuendo a promuovere una più diffusa crescita culturale in termini di consapevolezza.
Ma ancora prima occorre rilevare che in senso contrario a quanto affermato dai sostenitori di esigenze riformiste/demolitorie depongono indubitabilmente le acquisizioni giudiziarie degli ultimi decenni [6] che descrivono sodalizi di stampo mafioso nei quali una componente fondamentale è rappresentata proprio da soggetti dediti con assoluta cautela comunicativa e spasmodica cura della riservatezza agli investimenti speculativi e al condizionamento delle pubbliche amministrazioni per conto dell’organizzazione e in suo favore [7]. Il che induce a ritenere che una strategia di contrasto davvero efficace non possa assolutamente prescindere dall’includere nel focus investigativo quei segmenti operativi, tanto più produttivi per l’organizzazione quanto insidiosi e nascosti.
Si dirà che intercettando gli affiliati, anche in modo invasivo, si potrà pur sempre giungere ai loro legami affaristici e politici; ma tale affermazione contrasta con il dato di realtà, emergente da decine di indagini che hanno consentito di accertare la raffinata strategia di occultamento dei soggetti, dei legami e degli affari più strategici per i sodalizi, e la possibilità di giungerne efficacemente alla ricostruzione partendo proprio da indagini di pubblica amministrazione o frode fiscale. Soprattutto, ci si chiede quali possano essere le ragioni tecniche e di politica criminale che conducano a rendere consapevolmente più ardua l’investigazione, ponendo ancora una volta lo Stato in condizioni di minorata difesa rispetto a condotte criminali di drammatico impatto socio-economico: se è vero, come è vero, che “il contrasto alle mafie, oggi caratterizzate da modelli imprenditoriali che alterano le dinamiche economiche, la libera concorrenza e l’ambiente, deve sempre più ispirarsi ad una migliore tutela della spesa pubblica…”[8].
Molte indagini condotte dalla procura partenopea [9], infatti, hanno consentito di pervenire finalmente al disvelamento dei rapporti più sensibili e fruttuosi per l’organizzazione, e parimenti più nascosti, soltanto mettendo in campo uno straordinario impegno investigativo [10], e relative risorse, per giungere – in tempi non brevi – a individuare quei soggetti particolarmente mimetizzati e protetti che hanno svolto a lungo una fondamentale opera di raccordo tra l’organizzazione, la pubblica amministrazione, il mondo dell’impresa: il tassello intermedio, dunque, a lungo nascosto, rappresenta lo scoglio maggiore per ottenere risultati investigativi positivi. Non è pertanto del tutto condivisibile l’idea che l’estensione degli strumenti operativi più efficaci ai delitti dei pubblici amministratori sarebbe comunque salvaguardata dalla sussistenza dell’aggravante mafiosa [11], quando riconoscibile, che renderebbe comunque applicabile il regime normativo più rigoroso, in quanto è proprio la difficoltà di individuazione dei soggetti che, intermediati da fiduciari a loro volta sapientemente nascosti, operano nella pubblica amministrazione e nell’economia a favore dell’organizzazione a rendere anche difficilmente applicabile l’aggravante mafiosa a fatti che (in assenza del disvelamento di quel segmento di intermediazione) potrebbero apparire delitti comuni.
Viceversa, poter indagare su fatti di corruzione con gli strumenti intercettivi più efficaci rende maggiormente possibile il disvelamento del legame con il sodalizio, e dunque la possibilità di condurre indagini maggiormente produttive in tempi più brevi e con un più ragionevole impiego di risorse, partendo dal reato comune. E ciò, come prima detto, a tacere delle ragioni di politica criminale che fondano ex se la giustificazione di strumenti più efficaci per un delitto di eccezionale gravità e allarme sociale, e di difficilissimo accertamento, quale la corruzione.
Resta pertanto non ragionevole, né sufficientemente motivata, se non con affermazioni piuttosto apodittiche e astratte e prive di collegamento con la realtà fattuale, la scelta di indebolire anziché rafforzare la capacità di accertamento e di contrasto di tali fenomeni criminali da parte dell’Autorità giudiziaria.
2. I caratteri delle mafie secondo le più recenti indagini
Con un linguaggio che ritroviamo nelle pronunce giudiziarie che, all’esito delle indagini eseguite dalla Direzione distrettuale antimafia napoletana, hanno ricostruito già da qualche anno gli assetti attuali della criminalità organizzata campana, la Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia per il primo semestre del 2022 riconosceva la “tendenza rilevata ormai da diversi anni circa il generale inabissamento dell’azione delle consorterie più strutturate che hanno raggiunto un più basso profilo di esposizione e, come tale, particolarmente insidioso proprio in ragione dell’apparente e meno evidente pericolosità. Tale atteggiamento risulta sempre più diffuso in tutte le matrici mafiose in considerazione del vantaggio loro derivante dalla mimetizzazione nel tessuto sociale e dalla conseguente possibilità di continuare a condurre i propri affari illeciti in condizioni di relativa tranquillità senza destare le attenzioni degli inquirenti. La criminalità organizzata infatti preferisce agire con modalità silenziose, affinando e implementando la capacità d’infiltrazione del tessuto economico-produttivo anche avvalendosi delle complicità di imprenditori e professionisti, di esponenti delle istituzioni e della politica formalmente estranei ai sodalizi” [12].
L’accertamento giudiziario di questa capacità di inabissamento [13] e mimetizzazione, infatti, appare sicuramente uno dei risultati più importanti conseguiti negli ultimi anni dalle indagini e dai processi in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso; sicuramente in Campania, dove tale strategia è stata realizzata anche strumentalizzando opzioni “dissociative” volte a contenere di fatto il danno derivante dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e ottenere benefici (in primis evitare condanne all’ergastolo per gli omicidi, contestati nei provvedimenti cautelari e quindi confessati) senza tuttavia fornire nessun apporto all’accertamento delle reali dinamiche criminali dei grandi sodalizi, incentrate soprattutto sui rapporti con la politica e sui correlati grandi affari, che sono stati a lungo protetti da una fitta coltre [14]; ma, per quanto è possibile rilevare, ciò è accaduto anche nei sodalizi operativi in altre regioni italiane [15]. Non per nulla, del resto, la Relazione al Parlamento la indica quale caratteristica di tutte le consorterie criminali di stampo mafioso più “strutturate”.
E la questione non è da poco, ai fini che qui interessano, poiché induce a porsi alcune domande centrali, le cui risposte non potranno che condizionare la soluzione al quesito posto in premessa: se questa è la caratteristica strutturale degli attuali sodalizi mafiosi, quali ulteriori affermazioni in termini di ricostruzione del fenomeno mafioso è possibile inferirne? Quale, cioè, la connotazione propria di quelle strutture criminali che il Legislatore intende perseguire e contrastare, e con strumenti adeguati a coglierne la fenomenologia specifica? Quale, in termini strutturali e funzionali, il ruolo della politica e dell’economia?
Infine, quale corollario logico: se questa azione di ricostruzione dell’operatività propria delle organizzazioni di stampo mafioso è stata accertata grazie agli strumenti investigativi e processuali posti sinora a disposizione dell’autorità giudiziaria, per quali ragioni, in che limiti e a quali fini intervenire in direzione riformista su uno statuto normativo che ha dato i suoi frutti?
Probabilmente uno dei punti di partenza dovrebbe cogliersi proprio in quella che i giudici prima e il Ministro dell’Interno poi hanno definito “capacità di inabissamento e mimetizzazione”, che in sintesi descrive null’altro che quel carattere di segretezza che è proprio delle associazioni criminali, ma che in quelle di stampo mafioso si esprime nella spiccata attitudine a tenere riservati i rapporti, più preziosi per il sodalizio e pericolosi per la collettività, con il mondo della politica, della pubblica amministrazione, dell’imprenditoria: talvolta non individuabili neppure in termini di alterità ma di immedesimazione.
Mentre il braccio armato di queste organizzazioni, caratterizzato dai livelli bassi o intermedi di una manovalanza che rappresenta pur sempre uno dei fondamenti su cui si regge la struttura, si “espone” e “viene esposto” necessariamente (seppure, è chiaro, con tutte le cautele volte a contenere i danni derivanti da detenzioni e condanne), essendo dedito essenzialmente alla raccolta delle provviste necessarie a mantenere gli affiliati e le loro famiglie (attraverso le estorsioni e lo spaccio di stupefacenti; il mercato del falso o l’usura) oppure alla espansione o mantenimento dei “confini”, non soltanto territoriali, sottoposti al proprio controllo criminale (giungendo alla commissione di omicidi, gambizzazioni, e cc.dd. “stese”: atti plateali e violenti espressione quasi sempre di momenti di fibrillazione interna ed esterna e dunque di debolezza dei gruppi, cui le organizzazioni più strutturate ricorrono soltanto là dove strettamente necessario, sia perché ne hanno poco bisogno sia perché attraggono evidentemente le maggiori attenzioni delle autorità), esiste in quasi tutte le organizzazioni più radicate, e quantomeno in quelle aventi origine nel territorio campano, un livello più alto e nascosto composto da “quadri”, reggenti e capi, che, dedito ai grossi affari, regge le fila di una protettissima rete di professionisti e imprenditori, di pubblici amministratori e politici, talvolta essi stessi intranei talaltra asserviti al gruppo mafioso in funzione di reciproci vantaggi, o semplicemente concorrenti in specifici delitti di tipo affaristico [16].
E questo livello “alto” appare sicuramente quello maggiormente mimetizzato, in misura direttamente proporzionale da un lato ai benefici che apporta all’organizzazione, dall’altro ai danni che arreca alla collettività e al Paese. In esecuzione di una strategia [17] che ha dato certamente i suoi frutti – se è vero, come è vero, che negli ultimi trent’anni alcune delle organizzazioni campane, pur fortemente indebolite da processi e condanne, hanno mantenuto una preoccupante presenza nell’economia e nelle relazioni con la pubblica funzione – gli esponenti di vertice dei sodalizi più forti hanno intessuto e mantenuto nel tempo rapporti anche con i livelli più alti del potere economico e politico-amministrativo, di talché sono stati accertati giudizialmente gli interessi mafiosi non solo nei più disparati settori del medio o piccolo commercio (dalla vendita di abbigliamento a quella di altri beni di largo consumo; dai distributori di carburanti alla gestione di aree di servizio, di bar e ristoranti) ma anche in settori più strategici e storicamente più protetti da ingerenze esterne e bisognevoli di provvedimenti amministrativi favorevoli quali la commercializzazione del petrolio, la raccolta e il trattamento dei rifiuti, l’edilizia e i settori a essa connessi. Per non parlare del mercato immobiliare, anche di lusso, e della grande ricettività alberghiera [18].
Ebbene, la possibilità per i vertici dei sodalizi di stampo mafioso di sedere ai tavoli dove si decidono gli affari (sia pubblici che privati) più importanti deriva evidentemente non solo da contingenti capacità personali ma soprattutto da una “riserva di utili” e da un patrimonio operativo oggettivamente trasmissibile, costituito da un know-how oramai stabilmente acquisito dall’impresa mafiosa e da rapporti sensibili più che rodati.
Il che fa pensare alla ulteriore conseguente considerazione: non può essere recente l’acquisizione di questa professionalità che consente di muoversi con dimestichezza nella economia e nella politica, tale è elevato il livello raggiunto e tanto strategici sono i settori in cui i capitali mafiosi sono stati ammessi e immessi. Osservazione che peraltro riceve forte sostegno dalla analisi di ciò che la mafia, o le mafie, sono state da sempre, dalle loro origini: seppur con gli inevitabili (e per quei sodalizi assolutamente vitali) “adattamenti” alla evoluzione socio-economica e politica dei territori ove esse si sono nel tempo insediate.
Esiste infatti un pensiero abbastanza diffuso, non solo nella pubblicistica ma anche tra gli operatori del diritto, secondo il quale negli ultimi tempi la mafia si sarebbe evoluta in soggetto imprenditoriale, inserendosi molto spesso ai livelli più alti dell’economia, ed abbia pertanto – in misura direttamente proporzionale, considerata la complessità della moderna organizzazione sociale e la stretta correlazione tra impresa privata ed esercizio dei poteri pubblicistici – sempre più bisogno, oggi, non solo di professionisti, faccendieri o imprenditori collusi ma anche di pubblici amministratori infedeli più o meno stabilmente a disposizione dei sodalizi, se non addirittura a essi organici: soggetti qualificati o comunque titolari di poteri pubblici pronti a strumentalizzare le proprie funzioni, all’occorrenza, al fine di garantire il raggiungimento degli obbiettivi di pervasivo controllo dell’economia legale da parte delle organizzazioni mafiose.
Si tratta di una osservazione non infondata ma imprecisa sotto il profilo della sua collocazione temporale: la mafia ha sempre fatto impresa e ha sempre intessuto opportunistici e strumentali rapporti con il potere pubblico e con la pubblica amministrazione. La stessa ragione dell’inserimento nel codice penale della nuova fattispecie di cui all’art. 416 bis nel lontano 1982 (introdotto dall’art. 1 della legge n. 646 del 13 settembre 1982), infatti, risiedeva esattamente dalla necessità di criminalizzare quelle condotte che, per quanto prepotentemente capaci di attentare all’ordine pubblico ed economico e alterare profondamente il mercato, rischiavano di non essere sussumibili nel delitto associativo semplice; e ciò, essenzialmente, in quanto riferibili a contesti associativi non necessariamente connotati dal programma di commettere delitti e neppure indefettibilmente dediti a comportamenti apertamente violenti [19].
Occorreva in altri termini adottare strumenti in grado di fronteggiare strutture economiche e di potere orientate a occupare i mercati e stravolgerne le regole sfruttando la propria dote criminale e i profondi legami con la politica, soprattutto quella espressa dai centri decisionali locali ma anche sostenuta da quelli centrali; strutture capaci di ostacolare lo sviluppo di una moderna imprenditoria e occupare interi segmenti economici grazie alla combinazione tra forza mafiosa e finanziaria, e il sostegno insostituibile di esponenti politici e amministratori pubblici [20].
Non è pertanto del tutto esatto affermare che le attuali forme di manifestazione delle organizzazioni criminali abbiano assunto negli ultimi tempi caratteri più moderni e raffinati, lasciando da parte le armi o la coppola per indossare il doppiopetto: una lettura attenta dei dati storici ricavabili dalle fonti induce a conclusioni esattamente opposte e consente di affermare che la mafia ha sempre fondato il proprio potere sia sulla violenza, non sempre né necessariamente manifesta o agita, sia sul dialogo e talvolta la compenetrazione diffusa e asfissiante con i pubblici poteri, con il mondo dei professionisti e con i detentori della ricchezza (patrimoniale o imprenditoriale che fosse) del Paese. Quello che è più recente, invero, è l’accertamento giudiziario definitivo di tali caratteristiche, che deriva evidentemente da più fattori: una più raffinata capacità di ricostruzione fattuale in ambito giudiziario, frutto sicuramente di una maggiore professionalità e specializzazione acquisita nel tempo dalla magistratura italiana; una più matura consapevolezza pubblica, resa indispensabile anche dai traumi del tragico periodo stragista; e strumenti investigativi e processuali più efficaci, nel tempo approntati.
È stato possibile accertare, infatti, che importanti sodalizi campani hanno largamente beneficiato dell’occultamento dei rapporti con la politica e le istituzioni, mai oggetto di rivelazioni; del nascondimento e della implementazione delle risorse finanziarie, mai svelate, sfruttando nel tempo la disponibilità di ampi settori dell’impresa a fare affari con la forza economica e mafiosa della camorra vincente; della assoluta protezione della riservatezza di una nutrita schiera di soggetti, mai svelati, che per esperienza e attitudini avrebbero meglio potuto sviluppare nel tempo la manovra di diffusa infiltrazione nella politica e nell’economia; del legame strutturale con gli amministratori pubblici, risalente a una stagione (quella tra gli anni ‘80 e gli anni ’90) caratterizzata non soltanto da faide cruente ma anche e soprattutto da patti tra politica e camorra. Lasciando indietro alcuni capri espiatori.
Non è del resto di limitato rilievo il fatto che una delle vicende più oscure della storia del Paese [21], rappresentata dalla trattativa tra lo Stato e Raffale Cutolo per il rilascio dell’assessore ai lavori pubblici della Regione Campania Ciro Cirillo, democristiano, sequestrato dalle Brigate Rosse il 27 aprile 1981, abbia visto la discesa in campo di camorristi e loro referenti politici accanto a esponenti nazionali della forza politica in quel momento più forte, la Democrazia Cristiana, servizi segreti e apparati deviati dello Stato, al fine – comune a tutti – di convincere il capo della N.C.O., che aveva un sostanziale predominio nelle carceri, a intervenire sugli appartenenti alle Brigate Rosse detenuti affinché fosse restituita la libertà all’uomo politico, e soprattutto fosse impedito che lo stesso potesse svelare ai brigatisti i segreti del post-terremoto. Vale a dire del saccheggio del denaro pubblico a opera di una nutrita schiera di imprenditori e pubblici amministratori strettamente legati alla criminalità organizzata, campana e non solo.
3. Le Relazioni delle Commissioni Parlamentari di inchiesta che hanno preceduto l’introduzione della fattispecie incriminatrice dell’associazione di stampo mafioso
Nel corso della VI Legislatura il Parlamento italiano attraversò una fase di fondamentale importanza per lo studio e la ricostruzione dei caratteri peculiari delle organizzazioni mafiose, e per l’individuazione degli strumenti di contrasto; la lettura delle Relazioni di maggioranza e di minoranza che nel 1976 chiusero i lavori della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia fornisce un quadro estremamente istruttivo.
Il tema aveva invero impegnato il Parlamento già nelle precedenti legislature, ma l’impegno profuso in particolare negli anni Settanta condusse poi all’adozione della norma-cardine della legislazione antimafia; soprattutto, è da dire, grazie alle conclusioni raggiunte nel 1976 nella Relazione di minoranza [22] della quale furono artefici principali Pio La Torre e Cesare Terranova.
Ebbene, ciò che in primo luogo colpisce della Relazione di minoranza è la aperta e coraggiosa denuncia della volontà della maggioranza, chiaramente emergente dalla sua Relazione [23], di sterilizzare in qualche modo la portata dirompente degli accertamenti compiuti dalla Commissione affermando che la mafia di quegli anni si era evoluta verso forme di gangsterismo e banditismo, e che si era attenuata, grazie anche all’intervento dello Stato (con le indagini, le operazioni di polizia, le azioni dei prefetti) la sua storica propensione al condizionamento dei pubblici poteri e al controllo della economia. Addirittura, secondo la relazione del senatore Carraro, stava in qualche modo diradandosi anche la tendenza della popolazione ad assumere comportamenti omertosi, diffondendosi una maggiore fiducia verso lo Stato, che induceva anche a denunciare.
E in effetti il corposo documento della maggioranza, pur avendo affermato in premessa di non voler tanto proporre una ricostruzione storica del fenomeno mafioso quanto una analisi dei suoi connotati fondamentali, finalizzata a “tentare di individuare i modi più efficaci di una lotta decisa alla mafia”, si diffondeva poi in una approfondita rappresentazione storica (il capitolo primo veniva non per nulla intitolato “La Genesi della Mafia”) che, partendo dalle vicende dell’800, attraversava un paio di secoli di storia della Sicilia; e, pur evidenziando soprattutto il ruolo della violenza e dei fatti di sangue nell’agire mafioso, non aveva potuto comunque fare a meno di riconoscere la mano mafiosa in numerosi e vitali momenti della storia politica ed economico-sociale siciliana, impegnandosi nella descrizione dell’iniziale ruolo della mafia nella economia rurale, attraverso la difesa del latifondo, e del successivo sviluppo della sua presenza nella vita della regione durante il periodo della forte urbanizzazione, a partire dal dopoguerra.
Venivano infatti analizzate le gesta, e i legami con il potere pubblico, di una mafia definita “agricola” a cui si riconosceva un ruolo fondamentale nel periodo pre- e post- unitario, durante le due guerre e nel periodo fascista; per poi passare in rassegna la c.d. mafia “urbana”, con la precisa indicazione di soggetti e vicende dimostrative della straordinaria capacità di adattamento dell’organizzazione rispetto alla evoluzione economica e socio politica: capacità che le aveva consentito non soltanto il mantenimento ma soprattutto il rafforzamento della sua infiltrazione negli assetti del potere pubblico e privato.
La Relazione dedicava invero una intera sezione alla questione “Mafia e potere pubblico”, giungendo ad ammettere che “si può dire senz’altro che le ricerche compiute hanno messo in luce molteplici anomalie di funzionamento dei vari organi della pubblica amministrazione, che hanno causato alla comunità gravi pregiudizi di ordine sociale, igienico, urbanistico ed economico, sotto le frequenti spinte di forze extra-legali che indubbiamente portano un’impronta di natura mafiosa”. Impronta mafiosa che la Relazione ritrovava in particolare negli “interventi comunali in materie di alto interesse sociale, in primo luogo in ordine allo sviluppo edilizio ed urbanistico delle città e dei centri più importanti della Sicilia occidentale…La gestione dei Comuni di qualche importanza della Sicilia occidentale è stata connotata da una serie frequente, anzi continua, di irregolarità amministrative di ogni genere…che per la natura più che per la quantità, e soprattutto per il contesto in cui si sono verificate, denunciano chiaramente, se non un’origine mafiosa, certamente il pericolo di un cedimento della pubblica amministrazione alle insidie, alle lusinghe, in una parola alla capacità di infiltrazione e di ricatto del potere mafioso in quegli anni presente con tutta la sua forza nei centri urbani presi in esame”.
“Irregolarità” sistematiche nel rilascio di licenze edilizie e di commercio e nella concessione di appalti: tra i tanti esempi – ricordava ancora la Relazione di maggioranza – dopo la frana di Agrigento del 1966 una commissione ministeriale di inchiesta accertò che “gli uomini di Agrigento hanno errato fortemente e pervicacemente …nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, interamente e coscientemente voluta, di atti di prevaricazione…di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento…”. Abusi, favoritismi e illeciti penali che mettevano in luce “come fosse sempre ampia la zona di permeabilità dei pubblici poteri alle azioni e ai tentativi di infiltrazione della mafia”.
Ancora la Relazione di maggioranza affermava “…ma fu in particolare a Palermo che l’accennato fenomeno assunse dimensioni per così dire visive, di tale evidenza cioè da non lasciare dubbi sull’insidiosa penetrazione mafiosa all’interno dell’apparato pubblico”, riconoscendosi che negli anni ’60 (e la Relazione, si ricorda, è del 1976) la gestione amministrativa del Comune raggiunse “vertici sconosciuti nell’inosservanza spregiudicata della legge”, con la “connivenza degli organi pubblici con gli ambienti mafiosi”; e che tutti gli abusi commessi e i favoritismi assicurati a tali ambienti andavano analizzati nel quadro delle vicende personali di colui che fu uno dei protagonisti della situazione di quegli anni a Palermo, Vito Ciancimino, cui la Relazione dedicava ampio spazio, per concludere che “il caso Ciancimino è stato l’espressione emblematica di un più vasto fenomeno che inquinò negli anni sessanta la vita politica e amministrativa siciliana, per effetto delle interessate confluenze e aggregazioni delle cosche mafiose e dei tentativi di recupero, ai fini elettorali o per giochi interni di partito, delle vecchie forze del blocco agrario o di uomini politici logorati dalla consuetudine con mondo mafioso…il successo di Ciancimino non si spiega come un fatto casuale…ma si comprende solo se visto nel quadro d’una situazione ampiamente compromessa da pericolose collusioni o da cedimenti non sempre comprensibili…”.
Tuttavia, teneva a precisare la Relazione, quasi ad anticipare le conclusioni che avrebbe di seguito offerto, “attualmente Ciancimino non fa nemmeno parte del consiglio comunale di Palermo…”, segnalando altresì che a carico dell’uomo politico pendessero diversi procedimenti penali per delitti contro la pubblica amministrazione. Ciancimino nell’angolo, dunque; e i rapporti tra mafia e politica nel dopo-Ciancimino in fase di evaporazione.
Non per nulla, infatti, nella parte finale la Relazione si diffondeva nella descrizione di una c.d. “quarta ondata mafiosa” dedicata al decennio che precedeva il 1976 (data della conclusione dei lavori della Commissione e del deposito della relazione stessa) per descrivere una mafia dedita in quella fase soprattutto a omicidi, stupefacenti, contrabbando.
Per tal via, di fatto contraddicendo quanto essa stessa aveva riconosciuto essere accaduto fin dalle origini e almeno fino a pochi anni prima, la maggioranza riusciva a concludere nel senso di una sostanziale sparizione di quei connotati peculiari del fenomeno mafioso poco prima descritti, per affermare “d’altra parte…la stessa delinquenza mafiosa tende a trasformarsi lentamente, ma in modo mano a mano accentuato, in una comune forma di delinquenza organizzata, non più connotata da requisiti tipici, pur priva di proprie caratterizzazioni, ma improntata soltanto a metodi di spietata violenza e di spregiudicata decisione…l’inserimento della mafia nella società urbana e industriale, la maggiore e più incisiva compressione che questa società necessariamente esercita sulle possibilità di aggregazione di un potere informale…infine, la lenta trasformazione della mafia verso forme di gangsterismo, hanno prodotto…una sensibile modificazione dei suoi rapporti con i poteri pubblici…e tende ad allentarsi (se non a scomparire) la presa che per tanto tempo la mafia ha avuto sull’apparato del potere formale.”
Dunque, mafia sempre più organizzazione criminale comune, basata sulla violenza e sul crimine di strada e non più sui rapporti con il potere pubblico; capacità in qualche modo autonoma della società urbana e industriale di ridurre gli spazi della prepotenza mafiosa e non più spasmodica ricerca di collegamento e supporto vicendevole tra mafia ed economia.
Ricostruzione chiaramente espressiva di un approccio negazionista e comunque consapevolmente e volutamente riduttivo dell’effettivo ruolo che in quel momento aveva la mafia, in Sicilia e non solo considerato lo stretto collegamento degli amministratori pubblici dell’isola con i centri decisionali romani. E volontà, neppure tanto nascosta, di frenare in qualche modo interventi normativi ben più efficaci.
I rapporti tra mafia e potere pubblico erano secondo la maggioranza evaporati in appena un quinquennio, più o meno per autonoma consunzione; tanto che la stessa Relazione affermava: “non è senza significato che gli ultimi anni, a differenza di quelli fino al 1970, non abbiano fatto registrare nelle città siciliane nessuno scandalo di qualche dimensione, che coinvolgesse insieme mafia e pubblici poteri. È un segno in più di una evoluzione nel senso indicato del fenomeno mafioso…”.
Dimenticava, la relazione di maggioranza, che Ciancimino era uomo della Democrazia Cristiana, l’uno e l’altra ancora saldamente al potere; che era rimasto nella carica di sindaco di Palermo fino al 1971; che era vicino a Salvo Lima, del quale (e dei relativi legami con la mafia) la relazione di maggioranza neppure parlava; che non era stato certamente messo nell’angolo dal partito, se è vero come è vero che soltanto la battaglia parlamentare della minoranza guidata da La Torre e da altri, e confluita nella relativa Relazione, fu in grado di far traballare ma non crollare il potere dell’ex sindaco di Palermo, che continuò anche negli anni successivi a essere tra i massimi esponenti della DC siciliana accanto a Salvo Lima, a capo della corrente andreottiana.
Una conclusione che determinò la forte, appassionata e indignata reazione della minoranza, che osteggiò fermamente tali tentativi con una accurata ricostruzione e documentazione di ciò che essa qualificò in termini di “compenetrazione” tra mafia e potere politico, viva e vitale più che mai, accusando che nel documento di maggioranza “pur affermando…che il dato caratteristico peculiare che distingue la mafia dalle altre forme di delinquenza organizzata è la “ricerca del collegamento con il potere politico”, si oscilla, nel seguito, tra la tesi sociologica della mafia come “potere informale” che occupa il vuoto di potere lasciato dallo Stato, e la realtà storica della compenetrazione fra il sistema di potere mafioso e l’apparato dello Stato. Si sfugge cioè al nodo centrale della questione: che tale compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)”.
Non un potere informale che si insinua negli spazi lasciati vuoti dal potere formale, ma un potere “compenetrato” in quello formale: la mafia è un fenomeno di classi dirigenti, affermava la Relazione La Torre. La compenetrazione tra mafia e potere politico aveva avuto fino ad allora, e per decenni, l’obiettivo di tenere a bada le classi subalterne, impedendo la modernizzazione e lo sviluppo democratico della regione.
E significativamente la Relazione di minoranza segnalava come a partire dagli anni ’60, con l’intensificarsi di un’azione di contrasto (espressa da parte della politica, e da inchieste giudiziarie), che passava anche attraverso la stessa istituzione di quella Commissione parlamentare, qualcosa stava cambiando: “prima del 1963 molti mafiosi ostentavano i loro rapporti con gli uomini politici e gli amministratori locali, e viceversa. La presenza dei mafiosi nei seggi elettorali era sfacciata e aggressiva. Oggi questi fatti vistosi di rapporti tra mafiosi e uomini politici si sono rarefatti”.
Ma, concludeva, ciò non consentiva di affermare che la mafia non esisteva più, né che i suoi rapporti con il potere pubblico e politico fossero stati definitivamente tagliati, né che la mafia si fosse trasformata in puro e semplice gangsterismo: sarebbe stato un grave errore, secondo la relazione La Torre-Terranova, se la Commissione avesse accolto le tesi della maggioranza, che miravano a ridurre il ruolo della corruzione come elemento strutturale esaltando soltanto le espressioni di violenza manifesta; ciò non avvenne, tanto che l’atto successivo fu la introduzione della norma che diede veste giuridica a quelle acquisizioni.
Infatti, il 31 marzo 1980 fu presentata alla Camera dei Deputati una proposta di legge che aveva quale primo firmatario proprio Pio La Torre, cui si aggiunsero poi le proposte di Virginio Rognoni; l’art. 416 bis del codice penale, come noto, fu quindi introdotto con la legge n. 646 del 13 settembre 1982. Pio La Torre era stato nel frattempo assassinato dalla mafia il 30 aprile dello stesso anno; Cesare Terranova il 25 settembre 1979.
4. Conclusioni
La Relazione La Torre-Terranova si oppose fermamente al tentativo di disconoscere le specificità del fenomeno mafioso, fondate sul rapporto strutturale col potere pubblico. Tanto la violenza quanto la corruzione, dunque, apparivano gli elementi peculiari e indefettibili dell’agire mafioso. Una diversa tesi avrebbe reso inutile l’introduzione della nuova norma: come la maggioranza parlamentare lasciò intendere quando affermò che la mafia era divenuta, sul finire di quegli anni ’70, una normale organizzazione criminale, soltanto particolarmente violenta e spregiudicata.
Piuttosto, l’intensificarsi di un’azione di inchiesta e contrasto aveva indotto a nuovi comportamenti: il nascondimento di rapporti in precedenza sfacciatamente ostentati. Cominciava, potremmo dire, quello che le sentenze di questi anni e la Relazione del Ministro dell’Interno del 2022, come segnalato in apertura, definivamo inabissamento: la accurata protezione dei rapporti più sensibili, quelli tra le organizzazioni criminali di stampo mafioso e i pubblici e privati poteri.
Il rischio di non comprendere e non agire adeguatamente fu evitato, allora, grazie alla coraggiosa attività di denuncia delle forze migliori del Paese.
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Note
[1] Davvero numerose le sentenze che, a dimostrazione di una riflessione che è sempre in atto, negli ultimi anni si sono interrogate su questioni nevralgiche eppure ancora non risolte; tra esse: le essenziali forme di manifestazione della condotta di partecipazione e la loro necessaria concretezza ed efficacia causale rispetto alla vita del sodalizio; il valore dell’affiliazione rituale; la definizione del metodo mafioso e il ruolo della violenza e della intimidazione, soprattutto in relazione a forme associative fortemente connotate da logiche corruttive; le nuove mafie, le mafie straniere, le mafie delocalizzate; i confini tra partecipazione e concorso esterno. Tra le tante, SS.UU. Penali n. 36958/21 del 27.5-11.10.21, imp. Modaffari; Sez. III pen. n. 2351/23 del 18.11.22-20.1.23, imp. Almanza; Sez. II pen, n. 31920/21 del 4.6-23.8.21, imp. Alampi; Sez. VI pen., n. 1162/22 del 14.10.21-13.1.22, imp. Di Matteo; Sez. VI pen., n. 14444/23 del 21.2-5.4.23, imp. Abubakar; Sez. II pen., n. 39774/22 del 7.5-20.10.22, imp. Aiello.
[2] Disegno di legge del Sen. Zanettin di Forza Italia, volto a introdurre “Modificazioni agli artt. 266 e 267 del codice di procedura penale e alla legge 9 gennaio 2019, n. 3 in materia di utilizzo del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione”. La Relazione della Commissione giustizia del Senato redatta al termine dell’indagine conoscitiva dal presidente Bongiorno e dai relatori Zanettin e Berrino, è stata approvata il 20 settembre scorso.
[3] Vedasi, ad esempio, Nello Rossi, Trojan Horse: tornare alla riforma Orlando? Il difficile equilibrio nell’impiego del captatore informatico, su Questione Giustizia, 28.12.22.
[4] Ancora Nello Rossi, nell’articolo riportato nella precedente nota.
[5] La vicenda di Mafia Capitale è nota. Diversi commentatori hanno ritenuto che con la decisione della VI sezione della Cassazione del 22 ottobre 2019, depositata il 12 giugno 2020, si sia giunti all’epilogo di un percorso rischioso di eccessiva dilatazione della fattispecie penale che avrebbe condotto alla possibilità di criminalizzare una mafia soltanto “giuridica”; e ciò soprattutto grazie alla identificazione dei caratteri fondamentali del metodo mafioso e della intimidazione, della c.d. “riserva di violenza” e della sua necessaria “esteriorizzazione” attraverso atti di violenza e minaccia effettivamente realizzati o comunque percepiti e idonei a imporre soggezione; del rapporto tra intimidazione e corruzione. Il tema appare invero troppo ampio per la limitatezza di questo scritto; ci sia consentito però di esprimere riserve sull’idea che si sia davvero messa la parola fine alla questione, con il definitivo preteso “riordino” degli aspetti applicativi della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., poiché è probabilmente necessario riflettere ulteriormente sul ruolo della corruzione all’interno della fattispecie incriminatrice, proprio e già dal punto di vista letterale, oltre che su quale fosse realmente la mafia che il Legislatore del 1982 aveva in mente, per averla analizzata e ricostruita, e intendeva perseguire.
[6] Nella sua audizione al Senato il 31 gennaio 2023 il Procuratore Nazionale Antimafia osservava: ..al piano dell’innalzamento delle garanzie attiene anche la questione dell’ulteriore delimitazione dell’impiego di alcune delle tecniche di indagine più invasive, come quelle legate all’impiego a fini di captazione del c.d. trojan…omissis…avverto la responsabilità di porre a disposizione delle valutazioni del Parlamento i dati di una ormai vasta e consolidata esperienza, i quali dimostrano…che l’efficacia reale dell’azione di contrasto della criminalità mafiosa dipende largamente dalla capacità di proiettare le indagini sui versanti nei quali operano le sue componenti più sofisticate e pericolose, perché deputate ai processi di reinvestimento speculativo, di condizionamento delle pubbliche amministrazioni…e di penetrazione profonda dei mercati d’impresa, a partire da quelli sui quali si riversano i maggiori flussi della spesa pubblica. Tali processi sono affidati non a uomini con la coppola sul capo e la lupara in spalla, ma al linguaggio, largamente praticato dal mercato e nel mercato, della frode fiscale e soprattutto della corruzione. Molte ed anche importanti indagini di mafia …sono originate da indagini avviate sul fronte del contrasto della corruzione e delle frodi fiscali; escluderle dal novero di quelle per le quali quelle tecniche investigative sono consentite sarebbe dunque scelta legittima ma destinata ad avere conseguenze pesantissime, non solo sul versante del contrasto della corruzione ma anche su terreno delle indagini di mafia…”; riportato da Giustizia Insieme, 3.2.23.
[7] La Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia per il primo semestre del 2022 segnala come “l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi, il 25 maggio 2022, nel suo intervento a conclusione della cerimonia organizzata a Milano nel trentennale dell’istituzione della DIA, ha riassunto le linee d’azione del Governo rispetto agli attuali format della criminalità organizzata, rimarcando che il contrasto alle mafie, oggi caratterizzate da modelli imprenditoriali che alterano le dinamiche economiche, la libera concorrenza e l’ambiente, deve sempre più ispirarsi ad una migliore tutela della spesa pubblica. Tale azione, prosegue, dovrà privilegiare la semplificazione delle procedure del sistema di contrasto alle infiltrazioni, il rafforzamento dei controlli e l’ampliamento di strumenti preventivi…”.
[8] Mario Draghi alla cerimonia per il trentennale della DIA a Milano, il 25 maggio 2022.
[9] Tra le altre, l’indagine denominata Petrolmafie che ha consentito di accertare ingenti investimenti della camorra napoletana e della ‘ndrangheta nel settore petrolifero, grazie anche a un accorto coordinamento investigativo tra le DDA di Napoli, Roma, Catanzaro e Reggio Calabria, coordinate dalla Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo.
[10] Il riferimento è ad esempio all’indagine denominata Morfeo che ha rivelato i risalenti e ingenti investimenti di un potentissimo clan campano nel settore degli appalti della Rete Ferroviaria Italiana e della TAV di Afragola e in quello della raccolta, di fatto monopolistica, di oli esausti in diverse regioni italiane, con l’apporto fondamentale di pubblici amministratori corrotti. Accertandosi ancora una volta il doppio assetto dell’organizzazione: i delitti “di strada” come spaccio, usura ed estorsioni affidati al braccio armato e militare, più esposto e pronto a sacrificarsi con arresti e condanne; gli affari più importanti affidati a mimetizzati intermediari, a contatto con i vertici, da un lato, e con imprenditori, professionisti e funzionari pubblici collusi, dall’altro.
[11] A tacere della attuale problematica connessa alla applicabilità del regime speciale delle intercettazioni per i delitti associativi anche ai delitti-fine aggravati dal metodo e/o dalla finalità agevolatrice, a seguito dei noti arresti giurisprudenziali relativi all’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 e ai recenti interventi del Legislatore.
[12] Così ancora la Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia per il primo semestre del 2022, indicata nella precedente nota.
[13] Sentenza della 5^ Sezione del Tribunale di Napoli del 9.3.2016, nr. 66727/10 RGNR sostanzialmente confermata dalla Corte di Appello di Napoli con sentenza nr. 4486/17 del 2.12.2019, che condannava numerosi esponenti del clan MOCCIA per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. con condotte a partire dal 2004 e fino al dicembre 2010. Il processo risultava originato dalle indagini che avevano portato all’emissione dell’ordinanza cautelare del 18.6.2010 del GIP del Tribunale di Napoli. Si riportano alcuni stralci della sentenza di I grado:“… È emersa altresì la struttura gerarchizzata di tali relazioni secondo una compartimentazione riservata e piramidale facente capo a soggetti posti tanto in alto da non essere in contatto con le vittime e addirittura con gli stessi usurai ed inaccessibile ai sodali con mansioni meramente esecutive o di mera assistenza esterna. I contatti tra questi ultimi ed i livelli intermedi e terminali dell’organizzazione sono stati infatti l’oggetto più difficile e discusso dell’accertamento penale ed è importante evidenziare fin da questo momento che per coglierlo sarà necessario non parcellizzare mai il singolo dato intercettivo ma collegarlo ogni volta alle altre emergenze captative parallele …Omissis… Una gestione realizzata con grande riservatezza attraverso la mediazione di pochi fidati soggetti che possono avvicinarlo direttamente… i collaboratori di giustizia li indicano metaforicamente con il nome di senatori …. in tal modo filtrando collegamenti altrimenti compromettenti per i vertici..Omissis…Si è potuto verificare al tempo stesso nel corso delle indagini che la famiglia MOCCIA mantiene un atteggiamento molto prudente e defilato rispetto alle attività più marcatamente delinquenziali e fa mostra di prendere le distanze almeno formalmente dai cd gruppi operativi… E’ una tecnica di inabissamento di cui tutti i collaboratori di giustizia hanno dato conferma e di cui il tenore di molte conversazioni oggetto di intercettazione da prova…”
[14] Il Gip di Napoli nella occ. n. 5/18 del 5.1.2018, p.p. 30350/13 RGNR operava una valutazione sulla dissociazione della famiglia mafiosa oggetto del procedimento, clan storicamente appartenente alla Nuova Famiglia, risultata vincente sulla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo:“…Proprio in quegli anni, peraltro, alterne vicende giudiziarie portavano all’uscita di scena di Moccia Angelo che, nel 1992, si costituiva presso la Casa Circondariale dell’Aquila perché, a suo dire, intenzionato “a chiudere i conti” con il passato. In particolare, il pentimento del Galasso e dello stesso Alfieri in uno alla preoccupazione per le possibili ripercussioni delle dichiarazioni di altri collaboratori, induceva i germani Moccia Angelo e Luigi (nel frattempo parimenti arrestato perché ritenuto anch’egli organico alla N.F.) ad intraprendere la strategia della “dissociazione”, raffinata iniziativa processuale volta a contemperare due esigenze apparentemente antitetiche: quella di una “negoziazione processuale” con l’autorità giudiziaria onde evitare la condanna all’ergastolo; quella di conservare, proteggere e mantenere un saldo legame criminale col sodalizio di appartenenza. I due indagati, resisi infatti conto della impossibilità di contrastare con operazioni di tipo militare l’apporto alle indagini fornito dai collaboratori di giustizia ed essendo consapevoli che le loro posizioni processuali (in particolare, quella di Angelo Moccia) fossero irrimediabilmente compromesse, si rendevano protagonisti di un’inedita ma lucidissima iniziativa processuale – quella della cd. “dissociazione” dalla criminalità organizzata – al fine di evitare la condanna all’ergastolo…omissis… accreditandosi come ex camorristi intenzionati a chiudere i conti “col passato”, si limitavano a confessare i propri reati, senza peraltro effettuare alcuna chiamata in correità nei confronti di terzi (a meno che non fossero collaboratori di giustizia ovvero persone decedute); e, così, Angelo riconosceva di aver assunto la gestione camorristica del circondario di Afragola e di aver partecipato agli omicidi…omissis…l’indagato non ha mai reciso i legami con il sodalizio di origine, mantenendoli anzi – anche nel nuovo millennio (quanto meno fino al 2013) – ai medesimi livelli di “eccellenza” del passato. Gli esiti delle indagini di cui al presente procedimento hanno infatti dimostrato che la “dissociazione” ed il successivo trasferimento a Roma hanno costituito solo un’astuta e lungimirante scelta criminale, con la quale l’indagato ha tentato di allentare la pressione investigativa delle forze dell’ordine nei propri confronti e, nel contempo, cercato di fornire una falsa immagine di affrancamento dai propri trascorsi criminali…”.
[15] Così ancora la Relazione del Ministro dell’Interno: “…‘ndrangheta che trova il suo punto di forza, da un lato, nella fedeltà alle origini e nella solida strutturazione su base familiare e, dall’altro, nella massima flessibilità ed intuito affaristico-finanziario che la proietta all’esterno della Regione di origine ed anche all’estero…La criminalità organizzata siciliana…continua ad annoverare tra le principali fonti di guadagno il traffico di stupefacenti, la gestione del giro di scommesse on line, le estorsioni declinate in tutte le loro forme e, con particolare riferimento alla zona di Palermo, la ricettazione e il riciclaggio di metalli preziosi – provento di rapine e furti – mediante la complicità di imprese commerciali del tipo “compro oro”. …In merito alla criminalità organizzata campana…si rileva un complesso sistema criminale permeato dall’operatività di storiche e consolidate compagini criminali e di aggregazioni dagli equilibri instabili che, non di rado, cercano di legittimarsi ricorrendo a metodi violenti per affermare il proprio controllo del territorio. Una criminalità sempre alla ricerca di nuove, migliori e più lucrose posizioni nei mercati illegali ma anche interessata alla espansione di una fitta rete di imprese. Le indagini hanno documentato la capacità, da parte dei sodalizi criminali di maggiore tradizione, di penetrare nell’alveo socio-economico-imprenditoriale riuscendo spesso a consolidare posizioni monopolistiche in interi settori così da incidere significativamente nel tessuto economico del territorio. Non si può più parlare, dunque, di una camorra parassitaria ma di sedimentate organizzazioni divenute esse stesse protagoniste di sofisticati processi finanziari, potendo contare su una propria classe imprenditoriale e riuscendo così a sfruttare spazi criminali offerti dalle “maglie larghe” di frange colluse della pubblica amministrazione. Proprio a causa di accertate infiltrazioni mafiose negli apparati amministrativi, con DPR del 28 febbraio 2022 è stato sciolto il Comune di Castellammare di Stabia (NA) ed il 10 giugno 2022 quello di San Giuseppe Vesuviano (NA)…la criminalità organizzata pugliese si manifesta, con articolazioni nei territori di Foggia, Bari e nel Salento, in continua evoluzione… La capacità di inserirsi nel settore imprenditoriale e nelle pubbliche Amministrazioni è stata comprovata dagli esiti dell’operazione “Levante”, conclusa dalla DIA unitamente alla Guardia di Finanza il 15 febbraio 2022, dalla quale emergono la presenza di un clan barese impegnato nel controllo delle aziende locali, nonché una serie di frodi fiscali, attività di riciclaggio e trasferimento fraudolento con riferimento anche al contrabbando di prodotti energetici…”
[16] Già nella richiesta di misura cautelare formulata nell’ambito del p.p. 9086/1992, instaurato a carico di Agizza Antonio + 101, la procura partenopea osservava che “la “politica della dissociazione”, per alcuni mesi perseguita da alcuni dei più pericolosi settori della criminalità organizzata (e concretatasi soltanto nell’interrogatorio di Angelo Moccia allegato, oltre che nello spettacolare quanto strumentale rinvenimento delle armi abbandonate in Salerno) sembra essere l’espressione di un consapevole disegno di perpetuazione del potere criminale camorristico, attraverso forme di “negoziazione” con lo Stato ambigue e pericolose. Accanto all’evidente scopo di frenare gli effetti delle collaborazioni con la giustizia già in atto e di impedirne l’espansione, non può non scorgersi il raffinato disegno di: – lasciare intatta la rete di trame collusive per anni intessuta con rilevanti settori della pubblica amministrazione e delle istituzioni politiche, nulla rivelando su tali, invasivi versanti criminosi; – conservare ed anzi legittimare le ingenti risorse economiche accumulate dalle organizzazioni criminali, nulla ovviamente rivelando circa provenienza e canali di reinvestimento delle stesse; – tacere sui collegamenti operativi (al fine della realizzazione dei traffici delittuosi più vari) con altre organizzazioni non coinvolte dalla scelta della “dissociazione”; – continuare ad avvalersi del potere economico-criminale conseguito, dopo aver riconquistato nel volgere di pochi anni libertà personale e di relazioni grazie ai trattamenti premiali pretesi…”.
[17] Nella relazione sull’attività della Direzione distrettuale antimafia di Napoli indirizzata il 16 giugno 1997 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari si segnalava “…La “politica della dissociazione” – quale forma moderna ed ambigua della tradizionale omertà – appare logicamente espressione di un consapevole disegno di perpetuazione di un potere criminale camorristico, minacciato dall’ efficacia dell’azione degli organi repressivi e di giustizia dello Stato. Accanto all’evidente scopo di frenare gli effetti delle collaborazioni con la giustizia già in atto e di impedirne l’espansione, non può non scorgersi il preciso disegno di:
– lasciare intatta la rete di trame collusive per anni intessuta con rilevanti settori della pubblica amministrazione e delle istituzioni politiche, nulla rivelando su tali versanti criminosi;
– conservare ed anzi legittimare le ingenti risorse economiche accumulate;
– occultare e potenziare le strutture destinate ai traffici illeciti di ogni natura (armi, droga, ecc.), tenendone i responsabili e le principali pedine fuori da ogni azione di contrasto;
– tacere sui collegamenti operativi (al fine della realizzazione dei traffici delittuosi più vari) con altre organizzazioni non coinvolte dalla scelta della “dissociazione” e non minacciate dalle indagini;
– individuare, all’interno dell’organizzazione, i soggetti meno “produttivi”, più deboli od esposti per caricare su di loro il peso di delitti ad altri membri dell’organizzazione ascrivibili;
– continuare ad avvalersi del potere economico – criminale conseguito, dopo aver riconquistato nel volgere di pochi anni libertà personale e di relazioni grazie ai trattamenti premiali pretesi, nonostante l’incredibile gravità ed efferatezza degli innumerevoli crimini commessi;
– ingolfare, in questo modo, l’intero meccanismo di contrasto e la già precaria macchina giudiziaria, conducendola su strade progettate dai capi più pericolosi dell’organizzazione, e distogliendole da versanti veramente incisivi.
La Relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia della XIII Legislatura approvata nella seduta del 24.10.2000 condivideva la ricostruzione operata dall’ufficio napoletano.
[18] Si tratta delle indagini, concluse con condanne, nei confronti di clan storicamente operanti nella città e in parte della provincia di Napoli quali quelli confederati nella c.d. Alleanza di Secondigliano (Mallardo, Licciardi, Contini) o originariamente facenti parte, con i primi, della Nuova Famiglia, come il clan Moccia di Afragola, i clan Russo e Fabbrocino del vesuviano; ancora, il clan dei Casalesi. Tutti, con varie declinazioni, fortemente inseriti nella economia legale, non solo campana, anche ad altissimi livelli; e tuttora sostenuti da importanti referenti politico-amministrativi. Insomma, una camorra che almeno dalla fine dello scorso secolo non spara, salvo sia strettamente necessario, ma fa grandi affari.
[19] “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri…”: così la lettera della legge, all’art. 416 bis cod. pen. La forza di intimidazione derivante dal vincolo, per espressa disposizione normativa, non richiede una specifica manifestazione di violenza fisica; in secondo luogo, la violenza morale e comunque la capacità di coartazione che induce a comportamenti non liberi e condiziona la libertà di autodeterminazione di chi venga in rapporto col sodalizio può derivare non solo dal timore di subire violenza fisica ma anche dalla consapevolezza di un sistema corruttivo talmente esteso e radicato da apparire invincibile; d’altra parte, quella forza, per legge, è finalizzata alternativamente a commettere delitti o affari. Queste considerazioni appaiono non irrilevanti nella riflessione sulle vicende di “Mafia Capitale” e sui temi da quella posti; apparendo anche significativo che la decisione di disconoscerne la sussumibilità nel paradigma in contestazione (l’art. 416 bis, appunto) fa leva anche su una rilevazione in qualche modo “quantitativa” dei casi in cui i soggetti terzi abbiano dimostrato di subire la soggezione violenta del principale imputato, dimostrando di utilizzare come paradigma il condizionamento derivante dal timore, in sostanza, di violenza fisica: uno ma non l’unico elemento che può fondare, secondo la norma, la forza di intimidazione e la soggezione conseguente.
[20] Relazione alla proposta di legge 31 marzo 1980, on. La Torre, atto parlamentare, Camera dei Deputati, n. 1581.
[21] Merita di essere meglio conosciuta la monumentale sentenza-ordinanza del giudice istruttore Carlo Alemi emessa il 28 luglio 1988 nel procedimento n. 896/83 e altri riuniti.
[22] Legislatura VI – Disegni di legge e relazioni – Documenti. Relazione di minoranza dei deputati La Torre, Benedetti e Malagugini, dei senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano, Maffioleti e del deputato Terranova.
[23] Legislatura VI- Disegni di legge e relazioni- Documenti. Relazione di maggioranza del senatore Luigi Carraro.
[24] Vedasi pag. 214 e ss della Relazione di maggioranza, citata nella precedente nota.
[25] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente – pag. 216
[26] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente – pag. 217.
[27] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente – pag. 237.
[28] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente – pag. 256.
[29] La Relazione La Torre dava ampio spazio alla figura di Salvo Lima, i cui collegamenti con Cosa Nostra -quale referente politico dell’organizzazione- hanno agitato a lungo e condizionato significativamente la vita del Paese, costituendo peraltro parte significativa di molte delle ricostruzioni sui rapporti tra mafia e politica operate anche nelle relazioni delle Commissioni parlamentari d’inchiesta istituite negli anni successivi. E appare degno di nota il fatto che egli, come Ciancimino, sia stato sottoposto tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ‘70 a diversi procedimenti penali per reati contro la pubblica amministrazione (interesse privato in atti d’ufficio, peculato e falso ideologico, con relative richieste di autorizzazione a procedere avanzate al Parlamento, in cui sedeva come Deputato della Repubblica dal 1968): dato che acquista una sua rilevanza proprio nell’ambito della riflessione generale sulla natura e sui confini del rapporto tra mafia e pubblica amministrazione nella prospettiva dell’adozione di statuti normativi, oltre che protocolli investigativi, che tengano conto di tale stretta relazione.
[30] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente – pag. 569.
[31] Con la puntuale indicazione di fonti e documenti la Relazione di minoranza analizzava i principali momenti della storia siciliana, dal periodo post-unitario a quello fascista e fino al dopoguerra, costantemente segnati dal ruolo dei gruppi di potere mafioso; in questa ricostruzione, un momento epocale dei rapporti tra mafia, banditismo e Governo veniva indicato nella strage di Portella della Ginestra, avvenuta il primo maggio 1947 a opera di Salvatore Giuliano, la cui mano fu armata, secondo la Relazione, proprio dal blocco agrario, mafioso, che intendeva impedire l’affermazione dei partiti dei lavoratori che in quel momento avevano appena ottenuto la maggioranza nel Governo regionale. Quelle stesse forze politiche che avevano fatto gli interessi del blocco agrario, espressione di potere mafioso, avevano impedito per anni l’attuazione della riforma agraria introdotta con una legge del 1950, che avrebbe consentito un significativo sviluppo sociale. E, continuava la Relazione, il Governo si servì poi della mafia per eliminare il bandito Giuliano, che doveva essere preso morto perché non potesse parlare: la Democrazia Cristiana, dopo Portella, “cedette al ricatto del blocco agrario e anticipò in Sicilia la rottura dell’alleanza tra i grandi partiti di massa” (Relazione di minoranza, pagg. 573-575).
[32] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente – pag. 581.
[33] “I cambiamenti anche profondi che sono intervenuti nel modo di essere della mafia non consentono comunque di affermare che essa abbia perduto la sua caratteristica originaria della incessante ricerca del collegamento con il potere politico”: così la Relazione di Minoranza a pag. 584.
[34] “Siamo rammaricati…di non essere riusciti a trovare un’intesa sulla relazione generale perché ci divide dal partito della Democrazia Cristiana il giudizio sulle responsabilità politiche nel sistema di potere mafioso in Siclia. Abbiamo voluto così sottolineare l’esigenza di voltare pagina nel modo di governare la Sicilia…”: Relazione di minoranza, pag. 609.
* Sostituto Procuratore della D.D.A. di Napoli
Fonte: Giustizia Insieme
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