Palestina, Israele. Resta ancora tanto da dire
I momenti difficili e complicati che stiamo vivendo in queste settimane dopo il disumano attacco portato da Hamas verso i civili israeliani e la risposta spropositata e non giustificabile dell’esercito israeliano verso la popolazione di Gaza, non si risolveranno certamente schierandosi per il popolo israeliano o per il popolo palestinese.
La storia che in questi ultimi 70 anni ha attraversato una terra così cara e amata da cristiani, ebrei e musulmani, è, in ogni suo evento e fatto accaduto, la vera testimone dell’incapacità finora dimostrata da tutte le istituzioni nazionali ed internazionali nell’affrontare la questione israelo-palestinese.
Eppure tutti coloro che hanno a cuore il futuro e la convivenza tra i popoli sono consapevoli che senza aprire la strada verso la costruzione di due Stati, quel piccolo territorio del nostro mondo diventerà il luogo di maggiore destabilizzazione e una polveriera umana in grado di rompere il già instabile equilibrio in Medio Oriente, anticamera di una guerra dalle proporzioni e conseguenze incalcolabili per tutto il pianeta.
In fondo Hamas deve la sua nascita, il suo sviluppo e la sua acquisizione di potere all’interno di Gaza, e in qualche modo la sua capacità di controllo sulle centinaia di migliaia di palestinesi che vivono lungo la striscia, principalmente a tre fatti politici di grande rilievo: una politica di espansionismo incontrollato da parte di Israele con i suoi continui insediamenti che espropriano illegalmente territori assegnati ai palestinesi; l’attuale inconsistenza politica dell’Olp e dell’Autorità Nazionale Palestinese con una classe dirigente incapace e corrotta; il fallimento della diplomazia internazionale, da decenni assente sul fronte della questione tra Israele e Palestina.
Chi ha avuto occasione, in questi anni, di andare in Terra Santa, non solo per visitare i luoghi sacri delle tre religioni monoteiste, e ha avuto contatti anche con il popolo palestinese e il popolo israeliano (nelle sue componenti ebraiche e arabo-israeliane), si è reso conto della complessità che ogni giorno si vive in quella terra.
Dalla mancanza di speranza nel futuro dei palestinesi che ogni giorno si vedono togliere parte della loro terra per dare spazio agli insediamenti israeliani, alla necessità per gli israeliani di una vita basata su una sicurezza esasperante, che toglie loro il respiro (e in parte anche la libertà), alla costrizione ad abitare in piccole città a cui sono spesso sottoposte le persone della componente araba-israeliana (abituate a vivere in precedenza nelle tribù e in forma nomade ), soprattutto per attuare su di loro un’azione di controllo, da parte dello stato centrale.
Una democrazia, quella israeliana, basata su una forma di dominio e controllo che fa del tema della sicurezza l’essenza stessa della sua sopravvivenza. Una condizione che si protrae da 70 anni e rende una democrazia debole, perchè basata essenzialmente sulla forza e sul controllo.
Una democrazia oggi messa ancor più in crisi dopo quanto è riuscito a fare hamas in quel sabato 7 ottobre, dove la disumanità ha prevalso su tutto e dove il popolo israeliano si è reso conto di quanto sia comunque vulnerabile. Una democrazia non può reggere in queste situazioni, se la politica di chi guida un paese non è in grado di dare una svolta decisiva che non può più essere la risposta della solo violenza e della sola forza.
Per fare questo passaggio occorrono persone in grado di vedere i diversi punti di vista, le le ragioni dell’uno e dell’altro, e poi cercare una strada che possa aprire al dialogo, nella consapevolezza che ciascuno deve fare un passo indietro per farne uno avanti insieme, uscendo finalmente dalla propria prospettiva.
È quanto con parole e immagini diverse ci indicano due grandi scrittori israeliani nostri contemporanei, da poco scomparsi, che hanno vissuto gli oltre 70 passa anni dello Stato d’Israele: Amos Oz e Abraham B. Yehoshua.
“Resta ancora tanto da dire” è il titolo dell’ultima lezione che Oz ci ha lasciato. Una lezione dove il grande scrittore ci parla di una malattia che affligge Israele, quella del “ritornismo”, ovvero quella di “cercare nello spazio, qualcosa che s’è perduto nel tempo”.
Lo fa prendendo come esempio il desiderio di invadere ogni angolo dei territori occupati, che sta diventando il tema dominante di Israele. Se anche si arrivasse alla riconquista di tutta la terra, ciò non porterebbe alla ricostruzione di “quel paesaggio biblico di cui si ha tanta nostalgia”.
Ma ciò non vuol dire che il popolo di Israele non si debba vivere la nostalgia che sente, solo non può viverla se non interiormente aprendosi al futuro che la storia presenta oggi; e il futuro non può essere che la costrzuione di due Stati.
Ci lascia Amos Oz con una speranza nel futuro: “l’uomo ha un finale aperto… Da qualche parte fose c’è già fra di noi l’uomo e la donna che dirà agli israeliani: cari ragazzi questa operazione va fatta, lo sapete anche voi. Allora facciamola. Perchè nel profondo dell’animo la maggior parte di noi, compresa una fetta di elettori di destra, lo sa già.”
Così con parole e storie diverse anche Abraham B Yehoshua, nel suo ultimo libro, prima di morire, “Il terzo tempio”, ci lascia la sua speranza.
Il terzo tempio per la tradizione ebraica ortodossa deve nascere in corrispondenza di quello precedente distrutto dai Romani nel 70 d.C., ovvero sull’attuale spianata delle moschee. Ciò provocherebbe, come ci dice anche Amos Oz, una guerra aperta contro tutto l’Islam, di fatto la terza guerra mondiale.
Ecco che nel romanzo di Yeoshua appare una donna straniera Ester, convertita, che propone la costruzione del tempio “fuori dalle mura della città vecchia, un tempio modesto, umile, tra la tomba di Assalonne e la valle della Geenna”.
Un tempio che non interferisce con le altre religioni, ma che sarebbe il segno di una pace vera, quella pace che lo stesso Yehoshua e Amos Oz, hanno inseguito fino alla loro morte.
Può sembrare letteratura, poesia, invece è la speranza che non ci deve abbandonare neanche oggi, perchè si basa sulla realtà storica e sulla concretezza che altro futuro su quella Terra benedetta da Dio non può esserci se non con la costruzione di due Stati.
Ed è lo stesso Amos Oz nel suo libro a ricordarci che “una ferita non si cura con il bastone” e anche per Israele c’è una sola speranza da inseguire: “se non ci saranno qui e piuttosto presto, due stati, allora ce ne sarà uno solo. Sarebbe prima o poi uno Stato arabo dal Mediterraneo al Giordano, dove gli ebrei sarebbero una minoranza”.
Ecco perchè Israele, i palestinesi, tutta la comunità internazionale devono trarre spunto e forza dalla tragedia avvenuta il 7 ottobre in terra israeliana e che continua ancora oggi nella striscia di Gaza, per iniziare davvero il lungo cammino che deve portare alla costruzione dei due stati.
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