L’incidenza dell’economia illegale sulla ricchezza nazionale
Quantificare le ricchezze di origine illecita e mafiosa che circolano nella nostra economia è un esercizio particolarmente complesso come evidenziato anche nell’ultimo report di pochi giorni fa dell’Istat sulla “economia non osservata” (NOE, Non- Observed Economy), quella, cioè, che sfugge alla osservazione statistica diretta e nella quale rientra, oltre al sommerso economico, a quello statistico e all’economia informale anche l’economia illegale.
Lo studio ha riguardato il 2021 con le attività illegali, stimate, del traffico di stupefacenti, della prostituzione e del contrabbando di tabacco, incluse nel sistema dei conti nazionali sin dal 2014 secondo le indicazioni fornite da Eurostat.
Dunque, nel 2021, le suddette attività illegali “hanno generato un valore aggiunto di 18,2 miliardi di euro, pari all’1,1% del Pil” con una ripresa rispetto al periodo 2018/2021 in gran parte attribuita alla dinamica del traffico di stupefacenti (valore aggiunto salito a 13,7 miliardi di euro), in linea con l’andamento del quadriennio precedente al 2020 in cui per il traffico di stupefacenti si era registrato un incremento medio annuo del 2,1% (rilevante anche la crescita dei servizi di prostituzione, marginale l’attività di contrabbando di sigarette).
C’è, poi, da ritenere che il commercio degli stupefacenti nel 2022 e nel corrente anno abbia inciso ancor di più sul valore aggiunto atteso l’incremento desunto dal volume notevole di sequestri (oltre 40 ton di stupefacenti nel 2023 al 30 settembre) effettuati dalle forze di polizia e dalle dogane su tutto il territorio nazionale.
Il tentativo di captare quel grande numero oscuro del valore delle attività illecite e mafiose che non si rilevano, in genere, nelle indagini, era stato fatto anche nel 2012 dalla Banca d’Italia. Il report di allora aveva attribuito all’economia criminale, mediamente, nel quadriennio 2005/2008, un valore addirittura pari al 10,9% del Pil, in ascesa nel 2008 al 12,6%. Nel 2011, invece, secondo le stime dell’Istat, l’economia illegale avrebbe avuto un peso complessivamente dello 0,9% del Pil, simile a quello della Spagna e lievemente superiore a quello del Regno Unito (0,7%).
Molto discutibile questa possibilità che l’UE ha concesso agli istituti di statistica dei Paesi membri di includere i proventi stimati delle suddette attività criminali nel reddito nazionale lordo e già nel febbraio del 2018, la Commissione parlamentare Antimafia, nella sua corposa relazione (oltre 500 pagine) conclusiva di fine Legislatura approvata all’unanimità, annotava che “sul piano statistico è come se il nostro Paese ammettesse, suo malgrado,che anche una parte dell’economia mafiosa è “buona” e, come tale, può contribuire alla ricchezza nazionale (..) la mafia, dunque, sarebbe una componente della ricchezza nazionale”.
Nella relazione (quanti degli onorevoli parlamentari l’hanno letta, studiata?) si sottolineava, tra l’altro, che sarebbe stato opportuno prendere in considerazione non solo il prodotto delle attività criminali ma anche gli effetti negativi di perdita complessiva provocati per lo Stato perché “sotto qualunque profilo si guardi, l’impatto delle mafie sull’economia ha sempre connotazioni di segno negativo”.
L’auspicio finale della Commissione era quello che si potesse avviare “una profonda riflessione da parte della politica affinché il nostro Paese non ceda ulteriormente alla suggestione di un ricalcolo del Pil apparentemente più favorevole sul solo piano dei conti nazionali, che possa apparire come una forma di “legalizzazione” statistica di quei proventi mafiosi (..) fattori di inquinamento dell’economia”.
Auspicio, come spesso capita, rimasto inascoltato.
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