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L’Antimafia deve rispetto a chi combatte la mafia

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Memoria, Politica, Sicilia

Leggo che la presidente della Commissione parlamentare antimafia (organo che dovrebbe essere di garanzia) è scesa in campo, dopo aver sentito informalmente un ufficiale del ROS, cominciando i lavori ufficiali con l’audizione fiume di un avvocato.

Questi ha potuto diffusamente elencare, fin da subito, le conclusioni da raggiungere, tra cui  snidare le “vipere” che appestavano la procura di Palermo nel  1992, ipotizzando anche una qualche ricaduta sulla  tragica vicenda dell’attentato di via d’Amelio, nel  quale furono trucidati, insieme a Paolo Borsellino, gli agenti Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi.

Borsellino era un grande, come uomo e come magistrato.

Quando Falcone era stato umiliato dal CSM, si era esposto denunziando i giuda che lo avevano tradito. Ma è noto che anche Borsellino – come Falcone – non era  benvoluto da tutti. E quando da Marsala si trasferisce alla procura di Palermo, il suo “capo” ci mette parecchio tempo prima di assegnargli inchieste di mafia corrispondenti al suo livello professionale.

Si decide a farlo soltanto qualche giorno prima del 19 luglio 1992, quando Borsellino  è ucciso da Cosa nostra: due mesi dopo la strage di Capaci, un’altra vendetta postuma per punire l’intollerabile sconfitta subita nel maxiprocesso.

E noto anche che, dopo la morte di Falcone, Borsellino avrebbe dovuto essere ben più responsabilmente tutelato, cosa che invece non fu. Tant’è che alcuni coraggiosi Pm – come Principato, Scarpinato, Ingroia, Teresi, Morvillo e De Francisci – sdegnati per quanto successo si ribellarono, auto-dimettendosi dal pool antimafia in forte polemica col procuratore capo di allora, invocandone pubblicamente la sostituzione.

Dovrebbe però essere altrettanto noto che dopo le stragi del ’92 (quando, parole di Nino Caponnetto, sembrava che non ci fosse più niente da fare) la Procura di Palermo fu in prima linea, insieme alle forze dell’ordine e alla società civile delle ”lenzuola bianche”, per fare Resistenza e impedire che il nostro stato diventasse uno stato-mafia capace di travolgere la democrazia.

Ricordo bene, dopo la mia nomina a capo della procura di Palermo, il primo incontro con i nuovi colleghi. Le mie parole furono semplici: “Dobbiamo lavorare in squadra, tutti insieme. E non si guarda indietro. Altrimenti andiamo a sbattere”.

Questo programma fu condiviso e attuato da tutti, senza riserve mentali. Nessuno remò contro. La Procura operò come un blocco coeso, raccogliendo il testimone di Falcone e Borsellino e cercando di ispirarsi al loro esempio.

I risultati  arrivarono. Un dato vincente è il numero davvero impressionante di mafiosi che dopo le stragi si pentono e decidono di collaborare con la giustizia: in pochi anni si passa da pochi pentiti sotto protezione a numeri da vertigine.

Era il segno di un cambio di egemonia politica e sociale, perché – come sosteneva  Falcone – un mafioso si pente e collabora con la giustizia nel preciso momento in cui comincia a fidarsi dello Stato. Anche in  virtù delle confessioni rese dai pentiti possiamo catturare un numero formidabile di  latitanti  mafiosi, che sotto il profilo criminale erano considerati, come si suol dire, “pesci grossi”, non semplici e marginali comprimari. Agli arresti seguono processi basati su prove sempre robuste: l’ala militare di Cosa nostra finisce alla sbarra e subisce pene giustamente severe (650 ergastoli, oltre a  centinaia di condanne a pene detentive dai 30 anni di reclusione in giù: il più alto numero di condanne nella storia di Palermo). A dimostrazione che se lo Stato vuole può fare giustizia dei criminali.

Tra gli altri risultati ricordo il valore (oltre 10 mila miliardi di vecchie lire, 5 miliardi di euro) dei beni confiscati, destinati ad alimentare la cosiddetta antimafia sociale, la legalità che conviene. E ancora, gli attentati e gli omicidi sventati con la scoperta di un numero enorme di arsenali con armi di ogni tipo, missili compresi, che avrebbero potuto essere in dotazione a eserciti regolari.

La democrazia fu salva. Nessuno pretende ovviamente che i Pm di Palermo che ottennero questo risultato siano pensati come perennemente avvolti nel tricolore, ma di sicuro essi hanno diritto a un rispetto autentico, non di facciata, per quel che hanno saputo realizzare.

Mettere in funzione macchine del fango preventive non è certo compito della Commissione parlamentare antimafia. Tanto più se si tiene conto (e come non si potrebbe?) di un articolato memoriale inviato alla Commissione dal sen. Roberto Scarpinato che disegna altri scenari.

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 03/10/2023

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