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Matteo Messina Denaro, muto da vivo, muto da morto

Saverio Lodato il . Corruzione, Istituzioni, Mafie, Politica, Sicilia

Se ne va una maschera.

Ora anche lui avrà il suo piedistallo.

Se ne va Matteo Messina Denaro, veloce nella morte quanto, al contrario, incredibilmente prolungata era stata la sua latitanza. E se ne va a bocca chiusa, senza vuotare il sacco nero dei suoi segreti, da malato terminale che non ha fatto in tempo ad un soprassalto di coscienza umana. Solo soprassalti notarili, per mettere a posto le carte. Il fatto è che la sua maschera era già stata abbondantemente ritoccata.

Il suo ritratto era già stato sapientemente predisposto per l’eternità, per quel pantheon di statue di cera che da oltre un secolo e mezzo allinea i volti di quei capi di Cosa Nostra che hanno perennemente tiranneggiato l’Italia fra favole e leggenda, sangue vero e crimini odiosi, coperture insospettabili e misteri solo apparenti, stragi messe a punto nei laboratori di un potere che non ha mai disdegnato l’aiutino delle mafie di turno.

C’è voluto un po’ di tempo, per sagomare una statua plausibile a uso e consumo dei posteri. Posteri che, come i contemporanei, non andrebbero turbati più di tanto.

Intendiamo dire che la sua cattura, il 16 gennaio di quest’anno, aveva consegnato agli investigatori un pregiudicato ingombrante. Che non sarebbe stato facile addomesticare. Blandire o spingere ai patteggiamenti. E oseremmo dire a prova di pentimento, perché ha da pentirsi il mafioso che nel suo delirio di onnipotenza ha fatto guerra allo Stato, non il mafioso che ha agito, volente o nolente, per conto dello Stato.

Matteo Messina Denaro.

Da trent’anni uccel di bosco.

Anima occulta dello stragismo classe ’92-’94.

Figlio di un grande padre criminale, Francesco, il “don” Ciccio di una Castelvetrano d’altri tempi; ma è una Castelvetrano che se ne sta ancora lì, immota, indifferente alla suggestione frenetica dei tempi, dove con omertà e identità false resta un gioco da ragazzi proteggere i Padrini.

Né va mai dimenticato che suo padre, morto di morte naturale, venne fatto trovare dai familiari apparecchiato e vestito a festa all’ombra degli ulivi, perché tutti sapessero che “don” Ciccio era stato raggiunto solo dalla mano di Dio, altro che dalla mano dello Stato. Figlio ma anche figlioccio, andrebbe detto nel caso di Matteo.

Figlioccio, infatti, di Totò Riina, che da piccolo, lo teneva amorevolmente in braccio intravedendo in lui – come poi sarebbe accaduto – l’erede designato del vecchio “don” Ciccio.

Il sangue nobile mafioso, Matteo, lo aveva, eccome.

E quel sangue lo aveva onorato alla grande. Con qualche umano capriccio, certo, ma senza mai dirazzare da quella via che era il suo destino.

Falcone, Borsellino, facevano parte del suo palmarès. Come le vittime delle loro scorte. Come le vittime civili a Firenze e Milano, in luoghi santi sia per la Chiesa sia per la cultura. Come la ripugnante eliminazione del piccolo Giuseppe Di Matteo, colpevo di essere figlio di padre mafioso e pentito.

E entrato in possesso, dopo la morte di Bernardo Provenzano, degli archivi segreti di via Bernini, a disposizione di Totò Riina e mai trovati dai carabinieri, li aveva diligentemente custoditi. E forse, nel medesimo scatolone custodiva quantomeno una copia dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, scatola nera che a tanti fa paura ancora oggi.

Con un simile palmarès, perché stupirsi se fosse salito in cattedra per conto di Cosa Nostra in nome di quella trattativa penalmente irrilevante – come ha voluto spiegarci e tranquillizzarci la Cassazione – fra lo Stato e la Mafia? Nel qual caso sarebbe logico il suo interessamento personale nel progetto di uccidere, a suon di tritolo, il pubblico ministero Antonino Di Matteo che di quel processo era stato accusatore di punta.

Dicevamo che se ne va una maschera.

Lo diciamo perché negli otto mesi in cui è stato vivo e detenuto, il racconto generale che lo ha riguardato parlava di donne e fidanzate, covi e autoscatti con infermiere, orologi e cardigan a otto fili, confezioni di profilattici e vita rilassata in quel di Castelvetrano. Questi sono stati i ritocchi e i ritocchini in corso d’opera alla sua autentica effigie criminale. Peccato.

Matteo Messina Denaro non era un attempato gigolò della Costa Azzurra.

Avemmo modo di dire, a Otto e mezzo su La7, la sera stessa della sua cattura, che proprio quella cattura era stata un ottimo colpo messo a segno dagli investigatori. Ma che molto sarebbe dipeso da quello che avremmo appreso dalla sua viva voce. Diversamente, ci saremmo trovati di fronte a una grande occasione mancata da parte dello Stato.
Purtroppo, è quello che è accaduto. Avanti un altro, la saga non finisce qui.

La rubrica di Saverio Lodato

Fonte: AntimafiaDuemila


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