Gli eroi italiani da ricordare sempre, oggi più che mai
33 anni fa l’omicidio del giudice Rosario Livatino.
“Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stati credibili”. Era la frase ricorrente di Rosario Livatino, magistrato, nato in un paese, Canicattì, che spesso noi lontani dalla Sicilia indichiamo come un posto sfortunato dove ti mandano per punizione.
Livatino non aveva 40 anni quando la mafia, per precisione la “Stidda”, cioè la malavita organizzata dell’agrigentino, lo uccise sulla strada fra Caltanissetta e Agrigento, dove viaggiava per andare in tribunale, solo, senza scorta, con i suoi fascicoli di lavoro. Cercò di scappare correndo fra i campi ma gli assassini furono implacabili.
Qualcuno vide e nel corso dei tre processi fu ricostruita la storia di questo omicidio che al momento apparve anche anomalo rispetto al contesto mafioso dell’isola. Sul luogo del delitto arrivarono molti giudici da Palermo. Anche Falcone e Borsellino. Era il 21 settembre del 1990.
Tutta la magistratura siciliana denunciò allora lo stato di abbandono generale in cui si costringevano a lavorare i giudici nelle località minori ma egualmente devastate dalla criminalità mafiosa, senza mezzi, senza forze di polizia a disposizione, senza presenza reale dello stato. Livatino, uomo di fede profonda e di incredibile etica e disciplina, lo ricordava ogni giorno. Intorno a lui vedeva soprattutto inefficienza e corruzione. Voleva e stava cambiando le cose giorno dopo giorno: era troppo per i boss locali, un predestinato ad essere eroe suo malgrado.
Le cronache lo hanno successivamente sempre ricordato con il titolo di un importante libro di Nando Dalla Chiesa a lui dedicato, “Il giudice ragazzino” (diventato poi anche un film). Dalla Chiesa prese lo spunto da un discorso del presidente Cossiga del 1991 in cui polemizzava con il fatto che la contro la mafia si schierassero spesso giudici neofiti, agli inizia di carriera, giudici ragazzini. Anni dopo Cossiga smentì che si riferisse anche o solo a Rosario Livatino. Non tutti gli hanno creduto.
Livatino, che si impegnò da adulto nella professione della fede e che viveva coerentemente con i suoi principi, è oggi beato. In uno sei suoi scritti privati fu ritrovata questa affermazione: «L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività».
Come sarebbe bello se a questi comportamenti si attenessero non solo i magistrati, ma la nostra classe politica, la classe dirigente, tutti noi.
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