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I lati oscuri dell’omicidio Dalla Chiesa 41 anni dopo

Vito Lo Monaco * il . Mafie, Memoria, Politica, Sicilia

3 settembre 1982, centoventisei giorni dopo l’uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, sempre con la compiacenza di certi ambienti politici, economici, istituzionali del Paese, la mafia uccide il Prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuele Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Gli esecutori e i mandanti mafiosi sono stati processati col maxi-processo e condannati all’ergastolo, ma quelli politici, come in tutti i processi di mafia prima della legge Rognoni-La Torre, sono rimasti soltanto sospettati.

Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva conosciuto la Sicilia da capitano dei Carabinieri comandante della compagnia di Corleone dopo l’uccisione mafiosa nel 1948 di Placido Rizzotto, socialista, segretario della locale Camera del Lavoro aveva indagato e denunciato quale autore del delitto Luciano Liggio resosi latitante. Quale colonnello comandante la Legione dei CC di Palermo negli anni 1966/1973 fu audito dalla Commissione Antimafia Nazionale alla quale relazionò ampiamente sulla natura criminale della mafia e sulle sue ampie relazioni con la classe dirigente dominante.

Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa ebbero modo di conoscersi e ambedue, sostenitori della legalità della Repubblica democratica fondata sul lavoro e sui diritti di uguaglianza e libertà, erano impegnati, nel rispetto dei diversi ruoli rivestiti, a contrastare il potere criminale del sistema mafioso. Carlo Alberto Dalla Chiesa che aveva contribuito a reprimere negli anni settanta le Brigate Rosse organizzando e dirigendo un corpo specializzato antiterrorismo coordinato nazionalmente.

Per tal esperienza e competenza, di fronte l’esplosione della seconda guerra di mafia degli anni ottanta, fu proposto di nominarlo Prefetto di Palermo con il compito di coordinare la lotta a Cosa Nostra, potere che gli fu mai accreditato. La nomina fu sollecitata a Spadolini, Presidente del Consiglio, anche da La Torre, qualche mese prima della sua uccisione, che assieme a Rita Bartoli, vedova del giudice Costa ucciso dalla mafia, lo incontrarono appositamente.

Il Prefetto Dalla Chiesa prese possesso della nomina il giorno prima dei funerali di Pio di cui fui organizzatore per la segreteria regionale del PCI. In quell’occasione ebbi modo di incontrarlo. Il giudizio del Prefetto su Pio si evince da quella sua secca espressione con cui rispose a Giorgio Bocca, che lo intervistava nell’agosto del 1982, qualche settimana prima della sua uccisione, e gli chiedeva perché Pio fosse stato ucciso” per tutta la sua vita” condensando così il suo impegno per il cambiamento sociale e la difesa dei ceti più deboli secondo i principi della Carta Costituzionale e l’Utopia del socialismo.

Secondo tanti commentatori, Dalla Chiesa accelerò involontariamente la sua soppressione facendo sapere che si doveva indagare sui rapporti tra alcuni imprenditori catanesi il cui potere si estendeva in tutta la regione per il controllo della spesa per i lavori pubblici e la ricostruzione post terremoto. Altro errore involontario sarebbe stato quello di aver comunicato ad Andreotti che avrebbe indagato sui suoi influenti amici di corrente palermitani.

Permettetemi un ricordo personale: nell’estate del 1982 promuovo a Casteldaccia, mio paese natale, assieme a un gruppo di giovani e a don Cosimo Scordato, prete in quella fase del paese, epicentro della seconda guerra di mafia, la costituzione del Comitato popolare di lotta contro la mafia che vedrà una grande adesione popolare trasversale fino alla prima marcia Bagheria/Casteldaccia del 1983 e a tante iniziative con le scuole e i cittadini che si ripetono fino a oggi. Concordo con Dalla Chiesa un suo intervento a una manifestazione antimafia per settembre.

Rientrando a Palermo da una breve vacanza il tre settembre, incappo nel luogo della strage, così apprendo della tragedia. La strage suscitò, come per l’uccisione di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre manifestazioni in tutto il Paese. Il Parlamento fu costretto a discutere e approvare finalmente il ddl primo firmatario La Torre, deputato del PCI, depositato nel 1980, con il titolo Rognoni- La Torre n.646 fu pubblicata il13 settembre.

Da quel momento, dopo 122 anni dall’Unità d’Italia, essere associato a un’organizzazione di stampo mafioso è un reato grave per lo Stato e per la Chiesa un peccato, i beni proventi di reato devono essere confiscati e restituiti alla collettività. Nessuno potrà negarne l’esistenza o ignorarla. La legge Rognoni-La Torre consentirà a un piccolo gruppo coraggioso di magistrati e inquirenti, alcuni dei quali hanno pagato con la loro vita l’impegno di legalità, di istruire il primo Maxiprocesso le cui condanne sono state confermate in Cassazione.

Le sentenze hanno confermato che lo Stato è più forte di tutte le mafie, purché nessuno della classe dirigente sia indifferente o abbia collusione con le organizzazioni mafiose. Le mafie sono indebolite, ma non sono scomparse. Esse, capaci di adeguarsi ai mutamenti della società, scompariranno quando sarà impossibile ogni nesso tra mafia, affari, politica e corruzione.

In tal senso ci conforta che la coscienza antimafia sia cresciuta nel paese e nel mondo alle prese con la crisi economica e le sue conseguenze socio-economiche-ambientali. Cancellare anche le mafie dal futuro del Pianeta sarà possibile sempre con una larga partecipazione dal basso.

* Centro Studi Pio La Torre

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