Senza gli aiuti ai poveri c’è il welfare dei clan
Collocare Paolo Borsellino nel proprio Pantheon è cosa buona e giusta. Purché poi si sia coerenti. Non sono tali, invece, certe scelte che il governo e il suo entourage amano inanellare.
Il catalogo è ormai nutrito: la surreale discussione su un reato “inesistente”, il concorso esterno in associazione mafiosa; il garbato invito ad allontanarsi dal patrio suolo rivolto (insieme a una batteria di insulti) a un mite campione dell’antimafia come Luigi Ciotti; il masochistico licenziamento dalla Tv di stato di Roberto Saviano e delle sue preziose “lezioni” di legalità e giustizia; lo storno dal Pnrr, malamente giustificato, di 300 milioni destinati alla gestione dei beni confiscati ai mafiosi.
E oggi, ecco una nuova voce: la cancellazione tout court per alcuni del reddito di cittadinanza e la sua trasformazione, per altri, in un lungo percorso a ostacoli dall’esito imprevedibile; reddito grazie al quale un consistente numero di poveri a malapena riusciva a campare, mentre ora neppure questo.
C’entra anche qui la coerenza rispetto a Paolo Borsellino? Sì, se solo si voglia riflettere sul cosiddetto “welfare mafioso” e sui suoi effetti.
Partendo da quel che ha scritto Alfonso Sabella, pm a Palermo, raccontando (nel libro “Cacciatore di mafiosi”) il suo primo colloquio col boss Pietro Aglieri, appena arrestato (1997). A domanda se intenda collaborare Aglieri risponde: “Vede, dottore. Quando voi venite nelle nostre scuole [dice proprio “nostre”] a parlare di legalità, di giustizia, di rispetto delle regole, di civile convivenza, i nostri ragazzi vi ascoltano e vi seguono. E, magari, tornano a casa a riferire ai genitori quelle belle parole che hanno sentito. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro, una casa, un’assistenza economica e sanitaria, a chi trovano? A voi o a noi? Dottore, trovano a noi. E solo a noi. Lei è siciliano e lo sa bene che è così. Cosa collaboro a fare, allora? Solo per farvi arrestare qualche altra decina di padri di famiglia o per farvi trovare qualche pistola arrugginita? Cosa potrebbe cambiare se vi dicessi quello che volete sapere da me?”.
Aglieri è un mafioso doc (sia pure di una certa cultura) e parla da mafioso, ma le sue parole – oltre che brutalmente funzionali ai suoi interessi criminali – sono chiare: se i diritti fondamentali dei cittadini non sono soddisfatti, i mafiosi li intercettano e li trasformano in favori che elargiscono non “gratis” ma per rafforzare il loro potere. Così la mafia vince sempre. E la società civile, la gente, non fa certo quadrato con lo stato.
Ora, era già successo al tempo del Covid e potrebbe ripetersi oggi. I mafiosi hanno, nel loro Dna di sciacalli/avvoltoi, la perversa abilità di saper approfittare delle difficoltà e sofferenze altrui. E se i poveri non riescono a sfamare le proprie famiglie, ecco che ai mafiosi si aprono nuove opportunità di reclutare manovalanza criminale; e soprattutto di consolidare ed espandere il loro potere e il controllo del territorio: mediante la creazione di un “welfare” che elargisca (ecco le parole di Aglieri …..) quel che le istituzioni pubbliche non sono in grado di dare o addirittura hanno tolto intervenendo sul reddito di cittadinanza, per di più con un sms che solo l’insensibilità ottusa della peggior burocrazia poteva inventarsi.
In questo modo, in progresso di tempo potrà rafforzarsi la presenza delle cosche, già tendenzialmente egemonica, in alcune aree del nostro paese, allargando il profondo fossato (presidiato dai caimani mafiosi e dai loro complici) che separa le istituzioni dai cittadini di quelle aree, allontanandoli dalla prospettiva di farsi alleati dello stato invece che sudditi rassegnati della mafia: che così vede allontanarsi la sconfitta che proprio Paolo Borsellino riteneva possibile, purché la lotta alla mafia non fosse soltanto “una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolga tutti, che tutti aiuti a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà”.
Infine, se poi a queste preoccupazioni di semplice buon senso si risponde – nonostante i severi e univoci moniti del Capo dello Stato – con l’arrogante minaccia di commissioni d’inchiesta (versione moderna dell’intolleranza di infausta memoria verso gli indocili oppositori?), vien da chiedersi se non sia il caso di rispolverare l’antico brocardo latino secondo cui “quem Iuppiter vult perdere prius dementat”.
Fonte: La Stampa
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