Valorizzare i beni confiscati alle mafie è un segnale di legalità. E il governo che fa? Taglia!
L’inferno, si sa, è lastricato di buone intenzioni, ma anche l’antimafia di Governo non scherza. Mentre a parole la presidente della Commissione antimafia non perde occasione per ribadire che nessuno farà un passo indietro nella lotta alle mafie, che si devono moltiplicare gli sforzi per stare accanto a chi si impegna, a chi denuncia, a chi ci mette la faccia… arriva la notizia che il governo taglia dai fondi del Pnrr i trecento milioni di euro già stanziati per la valorizzazione dei beni confiscati alle mafie. La notizia agghiacciante circola proprio il 27 luglio mentre l’Italia commemora le bombe mafiose di trent’anni fa che sfigurarono Roma e Milano, facendo vittime innocenti e seminando il terrore (naturalmente la presidente era in prima fila alla fiaccolata romana).
La notizia è ancor più grave perché mai prima d’ora era stata stanziata una cifra così alta e soprattutto perché il bando era stato già chiuso e le graduatorie dei Comuni assegnatari dei fondi già pubblicate.
Le principali organizzazioni schierate su questo fronte, come Libera, Cgil, Avviso Pubblico, e alcuni parlamentari come la senatrice Rando del Pd hanno immediatamente stigmatizzato la pericolosità di un messaggio del genere che rischia di affossare la fiducia di enti locali, cittadini e associazioni nei confronti dello Stato su una questione tanto delicata.
Infatti è chiaro quanto l’utilizzazione sociale (ma anche istituzionale) dei beni confiscati alle mafie, soprattutto nei territori ad alta densità mafiosa, abbia una valenza grande nel fare toccare con mano che la legalità conviene, che le mafie si possono battere, che il bottino accumulato con attività criminali può diventare fattore di riscatto sociale. I beni confiscati e riutilizzati per la collettività sono una irrinunciabile epifania di una Italia che si libera del suo peggiore fardello, costruendo lavoro e inclusione. Un risultato che affonda le sue radici nel sacrificio di Pio La Torre e passa dalla indimenticabile mobilitazione di Libera, che nel 1995 sosterrà con un milione di firme la proposta di legge parlamentare per il riutilizzo sociale dei beni sottratti ai mafiosi (e ai corrotti, ma questa è un’altra storia).
Della necessità di alimentare questo tipo di epifania repubblicana aveva parlato soltanto giovedì scorso il procuratore di Bari, Rossi, ascoltato in Commissione antimafia, sottolineando la pericolosa capacità delle mafie di farsi anche cultura e in particolare cultura giovanile, affascinante e pervasiva, alla quale bisogna saper contrapporre una controcultura democratica, che convinca proprio sul piano della pratica della legalità, come alternativa vincente rispetto alle pratiche violente e clientelari dei clan. E invece il Governo che fa? Taglia!
Cosa c’entrano le lapidi dell’inferno? Il Governo si è affrettato a precisare che i soldi verranno ritrovati, “a valere” su risorse nazionali, in particolare quelle riferite alle cosiddette “politiche di coesione”. Ma si capisce bene che questa affermazione pone due ordini di problemi: verranno trovate davvero e poi, ammesso che vengano ri-trovate, chi altri pagherà il prezzo della riallocazione di questi fondi? In altre parole, ammesso e non concesso che i soldi vengano presi dalla “coesione” e messi sui beni confiscati, a chi verranno tolti? La coperta è corta e la “guerra” rischia di scoppiare tra chi si occupa in un modo o in un altro di vulnerabilità sociale, come stanno denunciando in questi giorni sindaci ed associazioni in relazione al taglio del reddito di cittadinanza. Un vero peccato, anche in considerazione della difficoltà con la quale i comuni oggi riescono ad attivare processi virtuosi di partecipazione, aventi ad oggetto i patrimoni confiscati.
E a questo punto chiedo aiuto allo sparuto manipolo di affezionati lettori di questo mio blog: vi risultano prese di posizione da parte della presidente Colosimo o del vicepresidente Mauro D’Attis (deputato in quota Forza Italia)? Ovviamente concentro l’attenzione su di loro perché essendo espressione della maggioranza che governa, diretta è la loro responsabilità.
Agli atti in verità risulta un post nel quale il vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, Mauro D’Attis, brindisino di provenienza, gongola per aver ottenuto, bontà sua, l’approvazione di un emendamento che finanzia per tre milioni di euro la Scuola Europea di Brindisi (!), che sarà senz’altro una istituzione meritoria, a conferma che i soldi si trovano, quando si vuole trovarli.
Infine, non vorrei essere frainteso, i fatti concreti sono certo fondamentali, ma lo sono anche le parole, quelle dette e quelle taciute. Le parole sono pietre. Per questo sarebbe stato apprezzabile da parte della presidente o del suo vice brindisino anche una presa di distanza dalle affermazioni di Matteo Salvini contro don Ciotti.
La Colosimo, che marcia accanto a don Ciotti per le strade di Roma durante la commemorazione delle bombe del ’93, che gli siede accanto a Villa San Giovanni quando si tratta di manifestare solidarietà alla sindaca violentemente minacciata, è d’accordo con il ministro Salvini? Si augura lei pure che don Ciotti espatri?
Se no, lo dica: con ogni probabilità la maggioranza di governo non verrà meno per questo, ha già digerito contraddizioni ben maggiori senza fare una piega (vedi alla voce “concorso esterno”). Anzi: lo inviti in audizione in Commissione.
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