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Otto anni dopo, le parole di Santo Della Volpe per la libertà di informazione

Redazione il . Corruzione, Cultura, Diritti, Giustizia, Informazione, Mafie, Sicilia

Il 9 luglio del 2015 ci lasciava Santo Della Volpe, inviato del Tg3 e ai tempi presidente della FNSI e presidente e direttore di Libera Informazione, testata e fondazione giornalistica che aveva contribuito a fondare con Roberto Morrione all’interno del perimetro di impegno civile promosso da Libera.

Due grandi giornalisti italiani, due uomini di comunicazione, capaci di anteporre alle proprie necessità personali le esigenze delle comunità di riferimento, il servizio pubblico della Rai prima, Libera in seguito. Il tutto con rinnovato vigore negli ultimi anni di una gloriosa carriera, sebbene fossero accomunati dalla strenue battaglia contro la terribile malattia che li stava consumando.

Un mese e mezzo prima di scomparire, Santo Della Volpe si spese per sostenere professionalmente il collega Rino Giacalone con l’articolo che riproponiamo in questo anniversario. È il suo ultimo contributo scritto alla nostra testata.

La scelta è stata facile perché è di qualche settimana fa la notizia della pronuncia del Tribunale di Roma che ha respinto le istanze di risarcimento di Telesud, avanzate per un altro articolo pubblicato tempo dopo su Libera Informazione, ma avente per oggetto gli stessi vischiosi rapporti tra politica, affari, mafia e massoneria in quel di Trapani, dove la sottile linea che divide legalità e illegalità viene continuamente messa in discussione.

Il nostro direttore parlava allora della necessità di “rispettare il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati ed il diritto dei giornalisti ad informare correttamente. Un diritto che in entrambi i casi non può essere usato come una clava per colpire persone indifese”.

Siamo certi che il direttore avrebbe accolto la sentenza assolutoria di Roma come il riconoscimento di una giusta battaglia di Libera Informazione in favore di un collega, travolto dalla macchina del fango, cui fu sottoposto per la sola colpa di avere raccontato la palude trapanese.

Come vedi, caro Santo, il cammino tracciato da te e Roberto continua ancora; la strada che avete inaugurato con il vostro impegno è ancora lunga da percorrere.

Lorenzo Frigerio 

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La macchina del fango e l’onere della prova

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C’è una vera inversione del giornalismo nella macchina del fango che ha colpito il collega Rino Giacalone, a Trapani.

Un preoccupante intervento sui connotati della nostra professione, piegandola a fini diversi da quelli per i quali siamo chiamati a rendere conto all’opinione pubblica.

I fatti: un giorno compare su un noto quotidiano siciliano un articolo che senza fare nomi e cognomi, adombra ipotesi di tentata estorsione e millantato credito a carico di un noto giornalista di Trapani.

E già qui c’è  la prima inversione del giornalismo: un articolo così sarebbe finito nel cestino e non in pagina, in tempi normali. Qualunque capocronista avrebbe detto al suo giornalista: articoli anonimi non se ne pubblicano, vai alla tua fonte, verifica i fatti, se c’è la notizia confermata allora si pubblica con nome e cognome, altrimenti il “pezzo” finisce nel cestino. Ma così non avviene, contravvenendo alla più elementari regole del giornalismo e della cronaca. Perchè?

A questa domanda nessuno ha dato una risposta seria. Forse perché il tema non era la notizia, ma mettere in moto la macchina del fango, i mormorii da bar, il chiacchiericcio orchestrato per screditare e non per verificare la notizia. Colpire un collega impegnato nelle sue attività di giornalista ed anche nelle attività antimafia?

Passano alcuni giorni e poi, con la prassi di tutte le operazioni del genere, dal metodo Boffo agli attacchi diretti alle persone, una televisione locale afferma in un suo notiziario che quel “noto giornalista” di Trapani, invischiato in questa storia, sarebbe proprio Rino Giacalone.

Lo afferma, dirà poi il suo direttore, sulla base di proprie fonti “sicure”; che però non rivela. È un suo diritto, le fonti sono spesso coperte. Solo che la magistratura esclude che Rino Giacalone sia indiziato. Ed allora il corto circuito rivela qualche problema, al punto che la stessa direzione della televisione locale chiede a Rino Giacalone di chiudere la vicenda presentando un documento che escluderebbe la sua iscrizione nel registro degli indagati.

E qui che avviene il secondo e grave capovolgimento della professione giornalistica: perché invece di approfondire a priori ed avere la certezza della prova e della fonte prima di scrivere un articolo o di andare in onda, si chiede alla persone messa in mezzo a sua insaputa e colpita da quei pesanti schizzi di fango, di discolparsi.

È il capovolgimento dell’onere della prova che, in questo caso, chiude un circolo vizioso che colpisce un giornalista nella sua persona e nella sua professione. Alla vittima Rino Giacalone viene chiesto di discolparsi, mentre erano i giornalisti che lo hanno messo in mezzo che avrebbero dovuto avere la certezza di quel che dicevano o scrivevano prima di fare il suo nome. E, tanto per rincarare la dose, c’è anche chi dice che ora Giacalone dovrebbe querelare per diffamazione, per fare ulteriore luce sulla vicenda.

A questo punto è urgente rimettere le cose al loro posto.

Che Trapani sia un luogo difficile per la nostra professione è certezza; ma proprio per questo il giornalismo deve essere limpido e ben ancorato ai capisaldi della professione. Si deve pubblicare una notizia quando si è sicuri delle fonti e si ha certezza, provata, di quello che si scrive e non sulla base di fonti non certe o dei “si dice” da chiacchiericcio.

Soprattutto in una situazione difficile come quella di Trapani, dove gli schizzi di fango possono far male, molto male. E l’onere della prova deve tornare nelle mani del cronista.

Questo per rispetto dei cittadini, soprattutto nel momento in cui chiediamo la modifica della legge sulla diffamazione per rispettare il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati ed il diritto dei giornalisti ad informare correttamente.

Un diritto che in entrambi i casi non può essere usato come una clava per colpire persone indifese. Si chiama deontologia professionale, per i giornalisti. E va sempre ricordato, anche al nostro Ordine Professionale e agli istituti della nostra professione.


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