Con il consueto birignao dolce come una lama sotto pelle (povero Goldoni), il ministro della Giustizia Nordio sta menando sciabolate su temi che esigerebbero il fioretto.
Oltre al resto, torna ancora una volta in scena il capitolo delle intercettazioni. Si tratta dell’ennesimo tentativo di minare gli spazi della libertà di cronaca e di imbavagliare l’informazione. Non si capirebbe, altrimenti, perché si intenda tornare su un orientamento già ampiamente deciso, dopo una lunga istruttoria, dal decreto legislativo n. 216 del 2017. Era emerso allora un punto ragionevole di equilibrio tra due diritti concorrenti: la tutela della riservatezza e il carattere di bene comune delle notizie di interesse pubblico. Sulla materia c’è, del resto, una ricca giurisprudenza italiana ed europea.
La società deve sapere, e conoscere anche gli arcani dei poteri. Solo così è in grado di farsi un’opinione sui vari ceti dirigenti e su essa stessa. Senza lo strumento delle intercettazioni, naturalmente utilizzato con cautela e giudizio, è pressoché impossibile venire a capo di delitti non immediatamente visibili e flagranti, bensì oscurati da cortine fumogene.
Di tanti casi inquietanti non avremmo alcuna contezza. Per di più, è persino bizzarro deprimere la divulgazione di conversazioni non commendevoli, visto che il telefono cellulare ha sostituito gran parte delle pratiche sociali. In stagioni tecnologicamente precedenti la coercizione era preparata da pedinamenti e investigazioni magari di ben maggiore intrusività. E, senza neppure tabulati cui riferirsi negli atti difensivi: valeva la chiacchiera di un vicino di casa ostile o di un parroco cattivello. Ad esempio. Ora, il ministro ha stretto i bulloni, riducendo le possibilità di pubblicazione ai soli documenti incamminati formalmente nel procedimento. Il resto, ovviamente, è stato visto da più di una persona e – a pensar male – potrebbe costituire un permanente strumento di ricatto.
Questa volta ad avere cattivi pensieri si è costretti. Come mai, infatti, simile reiterata insistenza, quasi ossessiva?
Qual è la vera posta in gioco? In verità, l’arzigogolo sulle intercettazioni, destituito apparentemente di ogni significato logico, ha un’unica plausibile spiegazione: è il prolegomeno di una vasta ed asperrima iniziativa contro l’informazione libera e indipendente.
Il regime in fieri, adagiato sulle fondamenta del presidenzialismo e della cosiddetta autonomia differenziata, non è in grado di sopportare un quarto o quinto potere critico verso l’omologazione politica e culturale.
L’agognata narrazione conservatrice ha bisogno di un consenso, pure se è irragionevole.
Stiamo assistendo, quindi, alle prove tecniche di una sorta di democratura. Le connessioni con ciò che accade in Polonia e in Ungheria sono esplicite. Proprio per simile impostazione di fatto antieuropea, non fa né caldo né freddo la messa in mora da parte di Bruxelles e gli stessi provvedimenti in corso d’opera – a partire dall’European Media Freedom Act – sono elusi o bellamente infranti.
L’iter parlamentare del provvedimento è al suo inizio. La Federazione nazionale della stampa, l’Ordine dei giornalisti e Articolo21 hanno espresso pareri assai negativi. È il momento di rinsaldare il fronte delle opposizioni, che qui ha l’occasione di mostrarsi unito e capace di difendere le stesse iniziative assunte quando governava.
Se è vero, però, che la misura sulle intercettazioni è l’antipasto di una cena non certamente di gala, allora è necessario mobilitarsi senza tentennamenti. Una manifestazione nazionale sulla libertà di informazione, come quella che riuscì con successo nell’ottobre del 2009, è un obbligo civile. Allora c’era Berlusconi. Ma il berlusconismo senza il suo creatore è ancora peggio.
Fonte: il manifesto/Articolo 21