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Nordio, la falsa riforma e l’eredità del Cavaliere

Gian Carlo Caselli il . Corruzione, Costituzione, Diritti, Giustizia, Istituzioni, Politica

Il Guardasigilli e l’eredità del Cavaliere che vuole menomare le toghe.

Il provvedimento va nel solco della delegittimazione berlusconiana della magistratura. Per anni le procure considerate “nemiche” sono state subissate di ispezioni e azioni disciplinari.

Non si era mai vista una (contro) riforma della giustizia fatta da un Guardasigilli Marchese del Grillo che cerca sostegno in una sorta di seduta spiritica per evocare il santo Cavaliere e operare «un nuovo tentativo di menomazione del potere del pm, oltre i limiti della tollerabilità costituzionale» (Donatella Stasio), posto che tutta la storia di Silvio Berlusconi va in questa precisa direzione.

Vero è che l’umana pietà per il defunto è tracimata (a reti tv allineate) nella rimozione di ogni accento critico, anche sul versante accidentato della giustizia ai tempi del Cavaliere. Ma sostenere che la (contro) riforma è garantista come lo era Berlusconi fa a pugni con la storia.

Tra il 1992 e il 1994, quando la magistratura stava guadagnando un consenso crescente con Tangentopoli e Mafiopoli, alcuni settori della politica e dell’economia (allergici a un controllo di legalità non più condizionabile) decisero di frenare l’azione dei magistrati. All’epoca, però, i magistrati in questione erano popolarissimi; finalmente, infatti, qualcuno stava dimostrando che la legge può davvero essere uguale per tutti! Ed ecco che i loro detrattori, non potendo attaccare direttamente i processi, utilizzarono l’espediente delle accuse strumentali contro i magistrati.

È in questo contesto che si diffonde una delle maggiori anomalie italiane: il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti «celebri», in una sorta di impropria riedizione del cosiddetto processo di rottura utilizzato però da membri dello Stato, anziché da sue antitesi come le Brigate rosse durante gli Anni di piombo. In altre parole, una strategia di difesa «dal» processo anziché «nel» processo, l’antitesi del sistema di stretta legalità.

Un’anomalia che si può dimostrare con un testimone eccezionale, il Presidente Usa Bill Clinton: processato da un magistrato «speciale», cioè nominato apposta per lui che non esitò a pretendere l’accertamento medico-legale della provenienza di alcune tracce organiche che una giovane stagista aveva a lungo «diligentemente» conservato sul suo abito. Un’umiliazione tremenda per l’uomo più potente del mondo.

I suoi biografi raccontano che ne fu scosso al punto che per un bel po’ non riuscì a ritrovare la chiave in suo possesso (l’altra era custodita dal ministro della Difesa) della valigetta di accesso all’arsenale nucleare Usa. Eppure, nonostante l’umiliazione e il turbamento profondissimi, a Clinton non passò mai per l’anticamera del cervello di prendersela con il giudice. A differenza di quel che è accaduto in Italia. Per molto meno.

Veniamo così alle vicende giudiziarie del presidente Berlusconi, nei termini in cui Livio Pepino ed io ne avevamo già scritto in un libro di Laterza («A un cittadino che non crede nella giustizia») del 2005. Tanto per dire che si tratta di argomenti noti da tempo e non elaborati solo post mortem.

Dunque, un processo penale a carico del presidente del Consiglio non è mai cosa da poco né appartiene all’ordinaria amministrazione. Figurarsi se i processi sono più d’uno e se riguardano (ipotizzate) corruzioni di giudici e pubblici funzionari (alcune risalenti all’epoca in cui il capo del governo era solo un imprenditore di successo, ma non per questo meno gravi). La valenza oggettivamente politica dei processi e il loro effetto dirompente erano inevitabili: così sarebbe stato in ogni parte del mondo.

Ciò che non era scontato è la guerra frontale ai giudici e alla giurisdizione che ne è seguita, con il connesso rischio di travolgere l’immagine stessa della giustizia. Casi analoghi sono accaduti, seppur sotto altri cieli, anche di recente e le reazioni dei personaggi pubblici inquisiti sono state le più diverse: dalla proclamazione della propria innocenza, all’ammissione delle proprie responsabilità.

Ma mai (salvo oggi Trump) è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di un capo di governo abbia determinato la contestazione in radice, da parte dello stesso leader e dei suoi sodali, del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (indicati tout court come avversari politici).

Questo è, invece, ciò a cui si è assistito nel nostro Paese, in un crescendo che ha visto l’attacco quotidiano a pm e giudici, l’indicazione dell’attività di indagine come «colpo di Stato»; la denuncia in sede penale degli inquirenti, sottoposti a continue ispezioni ministeriali e azioni disciplinari; l’approvazione di leggi ad personam o di leggi per addomesticare la prescrizione, fino alla legge Cirami e al lodo Schifani.

Tutto questo, secondo il Cavaliere, è stato reso necessario da un complotto giudiziario, non diversamente sventabile e dimostrato – alla fine – dalla propria generale assoluzione e dal consenso elettorale (che avrebbe l’effetto di azzerare responsabilità e processi).

Ma i fatti riportati nel capitolo 3 («La leggenda di un presidente del Consiglio perseguitato dalla giustizia») del libro sopra citato sono altri: dei processi di Berlusconi si sono occupati complessivamente oltre cento magistrati dei più vari orientamenti culturali (troppi e troppo diversi per qualunque complotto); delle sentenze di proscioglimento, alcune (tre su sei) sono state determinate, in tutto o in parte, da prescrizione conseguente all’applicazione delle attenuanti generiche (con parallela condanna, definitiva o in primo grado, dei coimputati cui tali attenuanti non sono state concesse); in altrettanti casi l’assoluzione è stata pronunciata ai sensi del secondo comma dell’articolo 530 cpp (insufficienza o contraddittorietà della prova).

In sostanza, possiamo dire che si è trattato di accertamenti doverosi e che la continua evocazione del complotto giudiziario altro non è che lo sperimentato e studiato sistema per trasformare in verità, grazie all’ossessiva ripetizione, anche il falso grossolano.

Dopo il 2005 la musica, sostanzialmente stabile, registra tuttavia il burlesque della Camera che vota «Ruby Rubacuori» come nipote di Mubarak e la condanna definitiva del Cavaliere per frode fiscale con la perdita del seggio in Senato.

Il bilancio finale di circa trent’anni è devastante per la giustizia. Perché, se lo dice, con il peso che gli deriva dalla carica, il premier, ogni cittadino soccombente in una causa civile o penale si sente legittimato a credere e dire che ciò è avvenuto non per colpe o torti propri (o, al limite, per errore), ma per la prevenzione – o peggio – del giudice avuto in sorte.

La questione è, dunque, cruciale e nella sua anomalia rivela che i poteri forti preferiscono avere servizi più che decisioni imparziali e mal tollerano magistrati indipendenti. Di qui al tentativo di delegittimarli il passo è breve.

P.S. Forse avrei dovuto premettere, per sgombrare il cambio da eventuali conflitti di interesse, che ci sono «prezzi» che ho pagato sulla mia pelle. Quando sono stato scippato del diritto di concorrere al ruolo di procuratore nazionale antimafia, in quanto da punire perché «indegno», mediante una legge contra personam, poi dichiarata incostituzionale.

Con essa il potere politico (mentre era in pieno svolgimento il concorso pubblico) ha di fatto espropriato al Csm la nomina del capo di un ufficio giudiziario, calpestando il principio costituzionale della separazione dei poteri.

Una palese violazione di ogni regola, candidamente e pubblicamente «spiegata» come una ritorsione per il processo Andreotti che avevo avviato, oltre a quello contro Dell’Utri, quand’ero procuratore di Palermo.

Fonte: La Stampa

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