L’attentato a Rumor del 1973, dalla strategia della tensione, tra gladiatori e fascisti, al compromesso storico
Oggi, 17 maggio 2023, a distanza di cinquant’anni dall’accaduto, ricordiamo l’attentato avvenuto il 17 maggio 1973, presso la Questura di Milano, mentre era in corso di svolgimento la commemorazione per un altro anniversario, il primo dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi.
In quel frangente un ordigno, il cui obiettivo era l’allora ministro dell’Interno Mariano Rumor, provocò invece quattro morti e quarantacinque feriti.
Per gentile concessione di Chiarelettere Editore e con il consenso dell’autrice, pubblichiamo un abstract dal nuovo libro di Stefania Limiti intitolato “L’estate del golpe”, che ripercorre quegli avvenimenti inserendo la strage in questione nel contesto della strategia della tensione.
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Note al testo
Le responsabilità giudiziarie dell’attentato alla questura di Milano sono state riconosciute esclusivamente in capo a Gianfranco Bertoli. Qualsiasi altra persona coinvolta nelle indagini e citata nel libro deve essere considerata innocente.
Tuttavia la sentenza della Corte di cassazione del 13 ottobre 2005, che ha concluso un lungo e complicato iter giudiziario, ha stabilito che «deve ritenersi dato storico, oltre che processuale, ormai incontestabilmente accertato la “provenienza” dell’attentato davanti alla questura di Milano del 17 maggio 1973 da esponenti di Ordine nuovo che avevano utilizzato proprio Gianfranco Bertoli, a loro legato da vincoli antichi di vario tipo, al fine di mimetizzare la vera matrice dell’attentato e di accreditare la tesi della matrice anarchica che era insita nella strategia della tensione sostenuta da Ordine nuovo».
Ha ritenuto inoltre che sono «del tutto evidenti gli errori di giudizio e di valutazione delle emergenze processuali in cui è incorsa la Corte d’assise d’appello di Milano con la sentenza del 27 settembre 2002», che ha accreditato la tesi che fosse stato Bertoli «l’ideatore e l’esecutore solitario e improvvisato della strage che invece era stata “annunciata” fin da un anno prima e che nasceva non già da un improbabile impulso anarchico del Bertoli, bensì dal desiderio di rivendicazione di Ordine nuovo che era stato colpito dall’onorevole Rumor attraverso la legge Scelba, e che vedeva in costui il soggetto che aveva attentato alla stessa vita della organizzazione, oltre che, ovviamente, dalle finalità proprie di Ordine nuovo nell’ambito della strategia della tensione».
Dunque la paternità ordinovista della strage è certa ma non è stato possibile stabilire responsabilità penali individuali, per la sottovalutazione di chiari dati investigativi o per errori giudiziari. Questo pur parziale ma importante risultato è frutto della caparbietà e dell’intelligenza di due magistrati, Tindari Baglione e Laura Bertolé Viale, allora rispettivamente sostituto procuratore generale della Corte di cassazione e sostituto procuratore generale di Milano, i quali chiesero il rinvio degli atti della sentenza d’assoluzione. Baglione disse di «non voler passare alla storia come il magistrato che chiede di far calare il sipario sulla strage della questura di Milano, una strage enorme rimasta impunita». Siamo grati a entrambi.
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Introduzione
Accadde di tutto in quel breve arco di tempo che va dalla strage di piazza Fontana (1969) al ritorno di Aldo Moro al governo del paese (1974). Fu un tempo di fuoco, attraversato da scosse golpiste non respinte da aree del potere che usarono il loro (brutale) anticomunismo per mantenere il potere stesso. Il partito dominante era in grande crisi, in quei mesi la Democrazia cristiana oscillava come un pendolo alla ricerca di un porto sicuro.
In questo libro attraversiamo quegli eventi raccontando una sola storia, quella che ruota intorno all’attentato del 17 maggio 1973 contro Mariano Rumor, figura di spicco della Dc, e al golpe progettato per quell’estate. Tra tutte le cose importanti che avvennero nel 1973 quell’attentato, seppur dirompente per la sua violenza, resta in penombra.
Forse perché fallito, per la mano incerta del killer. Ma fu una strage. A terra, davanti al portone della questura, restarono quattro morti e quarantacinque feriti, vittime innocenti. Non è uno scherzo attentare alla vita di un politico di tale rilievo, e quasi riuscirci. È un’azione carica di implicazioni anche per il valore simbolico dell’obiettivo: non solo per le sue alte funzioni – ministro dell’Interno in quel momento, già presidente del Consiglio quando scoppiò la bomba in piazza Fontana, per cinque anni segretario della Dc –, ma anche per essere egli stesso, Rumor, con la sua persona e la sua storia, un’espressione della classe politica che si era fatta Stato.
L’attentato alla questura di Milano è maledettamente complicato, come tutti i fenomeni che lambiscono zone del potere italiano, intrecciando protagonisti diretti ad altri che si nascondono, non sono visibili, non vogliono farsi riconoscere. Non esiste nella nostra storia la sfacciata platealità del tenente colonnello Antonio Tejero, che nel febbraio del 1981 brandì l’arma in prima persona per assalire il Parlamento spagnolo. Il vivace militare perse e non si ebbero dubbi su quanto era appena accaduto: in un paese che stava uscendo da una lunga dittatura, un pezzo residuale delle forze armate aveva tentato di riprendere il potere, e aveva fallito.
Nel nostro caso il gesto dell’attentatore, Gianfranco Bertoli, è sì plateale: quando viene bloccato è nervoso ed esaltato, si dice fervente anarchico in cerca di vendetta per la morte di Pino, il ferroviere Giuseppe Pinelli caduto giù da una finestra della questura milanese. In realtà il terrorista non vuole affatto farsi riconoscere, vuole passare per quel che non è: si dichiara anarchico, invece è un neofascista. Il silenzio di Rumor e di tutto il partito dominante, intorno a un’azione frontale di assalto al potere, è stato di sicuro agevolato dalla personalità eccentrica dell’attentatore, che ha offerto una chiave per chiudere il caso.
La nostra storia parte dunque da lui, Bertoli, che va inquadrato bene, perché non è affatto così solo e così anarchico come vuol far sembrare. È l’ultimo anello di una catena golpista, la base operativa di una cupola di mandanti che ruota attorno al secondo protagonista del racconto, Amos Spiazzi di Corte Regia, l’uomo che ha in mano la Gladio del Nord Italia.
In quegli anni, attorno a Spiazzi gravita tutto un mondo che sogna di abbattere la democrazia costituzionale. Tutti ce l’hanno a morte con la Resistenza, soprattutto odiano il patto antifascista da cui è nata la Repubblica. Alcuni sono un residuo del Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese, golpisti perdenti ma non domi, altri sono uomini di Ordine nuovo, agenzia del terrore e costola del Movimento sociale italiano (gli eredi del regime fascista), altri ancora provengono dal Movimento di azione rivoluzionaria (Mar) di Carlo Fumagalli, il terrorista più atlantista di tutti, esperto nel far saltare tralicci al Nord.
Il problema è che Spiazzi, oltre a essere un golpista, è un ufficiale dell’esercito italiano, un uomo delle nostre istituzioni che dietro di sé può contare su tanti altri uomini in divisa. Poi c’è un altro problema: il nostro servizio di informazioni conosce bene quel fattivo mondo di terroristi. Il numero due del servizio, Gianadelio Maletti, «uomo del silenzio», dà protezione al finto anarchico Bertoli, avendo già fatto cose simili in passato ed essendo stato poi condannato per quelle.
Paolo Emilio Taviani, esponente della Dc che è stato padre di Gladio ma non vuole avere sulle spalle la responsabilità di tutti quei fascisti che l’hanno invasa, capisce quel che sta accadendo e fa di tutto per denunciare le pericolose pretese dei neofascisti. Arriva anche a dire che non esistono gli opposti estremismi, che il pericolo proviene solo da una parte (e ha ragione). La sua carriera politica finirà lì. Sciolto Ordine nuovo, Taviani tornerà ai suoi studi colombiani.
In definitiva, raccontiamo una storia che nasce fuori ma è anche dentro lo Stato. E si conclude inevitabilmente nelle stanze della Dc, con l’ultimo protagonista, Mariano Rumor, presidente del Consiglio del «gran rifiuto»: non volle dichiarare lo stato d’emergenza nelle ore successive alla strage di piazza Fontana, non avallò alcun tentativo di rottura dell’ordine istituzionale e politico. Ma i neofascisti accusarono lui, uomo tranquillo e perbene del fattivo Veneto, di essere venuto meno a un patto.
Come fu possibile? E si vendicarono dopo tre anni e mezzo? In questa intricata matassa gli stragisti dovevano essere riusciti ad aprire un varco, un canale di comunicazione con gli ambienti istituzionali, e qualcuno poteva aver avvelenato i pozzi. Ma in effetti non fu solo vendetta quella esplosa davanti alla questura: fu la tappa di un ambizioso (e pretenzioso) piano golpista preparato per l’estate. Un piano che solleticava tanti appetiti.
All’alba degli anni Settanta la Dc è in mezzo al guado. Quando avviene la strage, è in corso un acceso viavai di incontri in vista dell’assise congressuale del giugno successivo. Le correnti stanno tentando di trovare una soluzione al forte disorientamento causato dal dirottamento della formula del centrosinistra fanfanian-morotea e dal superamento del doroteismo, buono negli anni del centrismo.
Dopo uno straordinario ciclo di lotte sociali che ha dato più potere al mondo del lavoro, e rafforzato i propositi vendicativi di una classe imprenditoriale reazionaria, le pulsioni verso un governo d’ordine sono fortissime. In tanti dentro la Dc non hanno affatto intenzione di liquidare l’eredità del Ventennio con cui il partito ha sempre avuto familiarità: per esempio, un segretario (Flaminio Piccoli) è stato eletto grazie agli uffici dell’ex generale Giuseppe Aloja, amico di Pino Rauti e Guido Giannettini e massimo sponsor della guerra non convenzionale.
Nei sotterranei della Democrazia cristiana le forze della reazione sono pronte a una svolta, tanto che, pochi mesi prima di quel maggio, il segretario politico Arnaldo Forlani sente perfino il bisogno di lanciarsi – gesto che non è nelle sue corde – nella denuncia del pericolo fascista proveniente dalla destra reazionaria. «È il più grave dalla Liberazione a oggi […], stanno attentando all’integrità dello Stato» dirà in un comizio pubblico. Si sa già del tentato golpe Borghese e Forlani vuole rendere noto che un attacco durissimo della destra non sarà accolto da tutta la Dc. Così Moro nel Memoriale: «Una forte ondata di destra (strategia della tensione) scuote il paese e Forlani per contrastarla pensa di batterla sul tempo, cogliendo i fascisti minacciosi ma ancora impreparati e anche rinviando di un anno il referendum sul divorzio» nel timore di dare sponda all’onda nera. Intanto sono forti sulla testa dei dirigenti democristiani le pressioni del Dipartimento di Stato, mai libero dalla paranoia anticomunista, per un governo d’ordine, mentre Moro è intento a costruire la sua «strategia dell’attenzione» verso il Pci.
In definitiva in quella fase regna un gran caos. L’azione di Bertoli finisce per provocare un sussulto riunificante nel partito che faticosamente tenta di uscire dalle secche, mentre matura il ritorno di Moro. Ma solo per breve tempo. Le forze occulte in Italia possono perdere ma non essere sconfitte.
Del resto, l’album del golpismo italiano non è ancora completo, mancano le foto di tanti protagonisti. Diversi volti li conosciamo, alcuni li incontreremo nelle pagine seguenti, talvolta sono anche un po’ naïf e pittoreschi, in generale quasi tutti sono personaggi senza alcuna epica e forse per questo ci siamo risparmiati il golpe.
Ma non una democrazia a bassa intensità.
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Abstract da Stefania Limiti, “L’ESTATE DEL GOLPE. 1973, l’attentato a Mariano Rumor, Gladio, i fascisti. Tra Piazza Fontana e il compromesso storico”, Chiarelettere, Milano 2023
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