Non delegittimare la magistratura
Esercitare l’azione disciplinare contro i magistrati rientra ovviamente nei poteri del ministro della Giustizia.
Ma se lo si fa con rullo di tamburi e alla vigilia di un dibattito parlamentare che si preannuncia delicato anche per l’esecutivo; se poi al proclama del ministro si possono obiettivamente muovere alcune critiche nel merito (come quelle di Paolo Colonnello su questo giornale o del direttore di “Questione giustizia” Nello Rossi, secondo il quale “scelte da valutare con riferimento al momento in cui sono state assunte” vengono di fatto censurate “a piedi giunti” con un “ministeriale senno del poi”), ecco che il quadro si complica e si intorbida.
Vero è (come insegna Piero Calamandrei) che un avvocato – ma il discorso vale all’evidenza per ogni giurista – “opera sulla realtà come lo storico, che raccoglie i fatti secondo un criterio di scelta da lui prestabilito, e trascura quelli, che, al lume di tale criterio, gli appaiono irrilevanti”. Ma “tradirebbe il suo ufficio se alterasse la verità col raccontare fatti inventati”. Mentre “non lo tradisce, finché si limita a cogliere e a coordinare della grezza realtà i soli aspetti che giovano alla sua tesi”.
Ma indiscutibilmente è altrettanto vero che quando è in gioco l’indipendenza della magistratura occorre essere particolarmente scrupolosi e precisi, per non avventurarsi in una apodittica e unilaterale prospettazione dei fatti che possa anche solo apparire come un sostanziale “invito ai giudici a uniformarsi sempre e comunque ai desideri dell’esecutivo” (Così Rossi).
Perché l’indipendenza della magistratura non è un privilegio di casta, ma un valore costituzionale patrimonio dei cittadini. L’unica speranza che essi hanno è che la legge possa riuscire a essere davvero uguale per tutti. E non finisca invece per fare gli occhi dolci a qualcuno e la faccia feroce agli altri a seconda delle direttive o degli orientamenti del potere esecutivo contingente. Il vero garantismo è questo: veicolo di uguaglianza per tutti. Altrimenti non è.
“In tempi di libertà – ci ricorda ancora Calamandrei – quando le correnti politiche soffiano in contrasto da tutti i lati, il giudice si trova esposto come l’albero sulla cima del monte: se non ha il fusto ben solido, per ogni vento che tira rischia di incurvarsi da quella parte”.
Un dato di fatto che non va mai dimenticato. Men che mai da un ministro della Giustizia, che abbia a cuore la solidità di quel fusto.
Fonte: La Stampa
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