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Giustizia. Quell’olio buono della libertà

Gian Carlo Caselli il . Associazioni, Diritti, Economia, Giovani, Giustizia, Lavoro, Mafie

La giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia che «Libera» celebra il 21 marzo (quest’anno è stato il 28°) richiama alla mia mente il pacco di pasta e la bottiglia d’olio che ho con me quando entro in una scuola.

Sempre noto lo sguardo un po’ sorpreso soprattutto dei ragazzi più giovani, che si chiedono come mai un signore venuto a parlare di mafia e antimafia si porti dietro proprio quella roba. Quando poi brandisco il pacco di pasta proclamando: «ragazzi, questa è la legalità!», lo stupore diventa malcelata preoccupazione per il mio…equilibrio mentale.

Ma tutto ciò dura un attimo, il tempo di raccontare una storia che nasce 27 anni fa, il 7 marzo 1996, con l’approvazione della legge numero 109/96, che nell’intestazione recita: «Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati». Sequestrati alle mafie.

Una legge di importanza storica, fondamentale per l’antimafia, che si deve principalmente alla tenacia di Luigi Ciotti, il fondatore del Gruppo Abele prima e di Libera poi, che nel corso del 1995 si fece promotore della raccolta un milione di firme per far approvare, finalmente, una legge per il riutilizzo sociale e istituzionale dei beni  mafiosi sequestrati e confiscati.

Mettere le mani nelle tasche della mafia

Il modo più efficace per indebolire la mafia è metterle le mani in tasca: il potere economico è in cima ai pensieri mafiosi.

Andare in galera è un male, ma si sopporta. Intollerabile è che si tocchino i piccioli. Perché cummanari è meglio ca futtiri (dopo il grande Andrea Camilleri  non serve traduzione…). Detto oggi sembra un’ elementare analisi della mentalità mafiosa. Eppure fu ignorata per decenni.

Il primo a farsene carico fu il siciliano Pio La Torre, sindacalista e parlamentare del Pci, autore di un progetto di legge che prevedeva il reato di associazione mafiosa e insieme misure patrimoniali contro le ricchezze accumulate illecitamente. Un  pericolo micidiale per la mafia: per i piccioli, ma anche per la configurazione come delitto punibile di per se stesso, indipendentemente dalla commissione di specifici reati, della «semplice» partecipazione  al clan. Un grave affronto che Pio La Torre paga con la vita (insieme all’autista di scorta Rosario Di Salvo) il 30 aprile 1982.

Ma il nostro, se pure è il paese dell’antimafia (all’avanguardia rispetto a moltissimi altri), purtroppo ha una legislazione antimafia che spesso è  quella del «giorno dopo». Così, per approvare  il progetto di Pio La Torre, facendone appunto la legge Rognoni-La Torre, bisognerà aspettare la morte anche di Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso a Palermo insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente Domenico Russo che li accompagnava, la sera del 3 settembre 1982.

Il sacrificio di Pio La Torre prima e ancor di più quello di Dalla Chiesa poi, obbligano l’Italia «che conta» ad ammettere l’esistenza (prima spudoratamente negata) della mafia come organizzazione criminale e non come semplice «mentalità», dotandosi finalmente di una legislazione antimafia specifica, cioè calibrata sulla concreta realtà. La legge Rognoni-La Torre ottiene il primo voto favorevole dalla Camera il 7 settembre 1982, appena tre giorni dopo la strage di via Carini.

La legge Rognoni-La Torre

Ed è così che l’Italia – soltanto 41 anni fa, dopo due secoli di mafia: è bene ricordarlo – si dota di quello strumento (il 416 bis che punisce l’associazione di stampo mafioso) senza il quale, ebbe a dire Falcone, è come pretendere di affrontare un carro armato a colpi di cerbottana. E quanto ai «piccioli», introduce la novità dirompente di invertire l’onere della prova: il condannato per associazione mafiosa deve dimostrare la provenienza lecita dei propri beni, altrimenti scatta automatica la confisca.

Mancava qualcosa però. I beni sequestrati alla mafia restavano inutilizzati, a coprirsi di polvere. E il mafioso aveva buon gioco a dire: vedete, quando questo bene era mio, ci guadagnavo io, ok, ma qualcosa c’era anche per voi; adesso invece niente per nessuno. La confisca ridotta a boomerang.

Ed è qui che entrano  in gioco Libera e don  Ciotti, con  l’idea dell’antimafia sociale e dei diritti.

Già Carlo Alberto Dalla Chiesa ne aveva intuito l’importanza nell’intervista a Bocca del 10 agosto 1982: «Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva; gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente [a caro prezzo] pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati».

In altre parole, finché i cittadini incroceranno soltanto il volto «militare» dello Stato, e al posto dello Stato troveranno soprattutto i mafiosi, finché saranno costretti ad essere sostanzialmente loro sudditi, la guerra alla mafia non sarà vinta. E sarà vano pretendere un duraturo, costante impegno della società civile.

1995 nasce Libera

Ciotti traduce in cifra operativa le parole di Dalla Chiesa. Nel 1995  fonda «Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie» e trasforma la mobilitazione spontanea del dopo stragi (la Palermo delle lenzuola bianche ai balconi) che andava fisiologicamente esaurendosi, in attività nazionale organizzata e permanente.

Così si possono raccogliere le firme a sostegno della proposta  di iniziativa popolare sulla destinazione sociale dei beni confiscati. Un milione di firme, quasi un miracolo, ma nello stesso tempo una formidabile pressione sui parlamentari che difatti approvano all’unanimità, il 7 marzo 1996, la legge n. 109.

Ed ecco che i beni appartenuti a mafiosi si trasformano in scuole, luoghi di ritrovo, campi sportivi, caserme, centri per anziani, aziende agricole gestite da cooperative di giovani e tante altre cose socialmente o istituzionalmente utili. È anche così che l’antimafia diventa una forma di aggregazione di identità soprattutto fra i giovani.

Ricordo con emozione il momento in cui Ciotti (il 19 luglio 1995 in via D’Amelio, di fronte all’ulivo piantato sul luogo della strage che aveva stroncato la vita di Paolo Borsellino) scaricò le firme raccolte – non tutte ma un grosso faldone dimostrativo – sulle braccia esili dell’allora presidente della Camera Irene Pivetti, letteralmente barcollante sotto quel peso.

Con la nuova legge, una parte del «bottino» che la mafia ha rapinato alla collettività le viene restituito, perché possa trarne profitto. Ecco quindi un’antimafia che non agisce solo secondo uno schema di «guardie e ladri», ma coinvolge la società civile e offre opportunità di lavoro che creano cittadini titolari di diritti, non più sudditi costretti a baciare le mani del mafioso di turno.

Un’antimafia che parla di dignità e libertà, un baluardo della democrazia contro i ricatti e le umiliazioni dei mafiosi. Un’antimafia che opera come  efficace anticorpo del crimine organizzato. Una conquista ammirata e studiata ovunque nel mondo, un nostro «fiore all’occhiello» grazie al quale possiamo rivendicare che l’Italia è sì, purtroppo, un Paese con problemi di mafia, ma anche e soprattutto il Paese dell’antimafia che fa scuola all’estero.

L’importanza della confisca dei beni

Ecco spiegato quel pacco di pasta che quando vado nelle scuole a parlare di legalità tiro fuori dalla borsa. Perché è pasta prodotta sui terreni confiscati alla mafia, quindi la materializzazione della legalità attraverso l’esibizione di una cosa concreta, che si può vedere, toccare, persino gustare.

I ragazzi capiscono che la pasta è legalità che significa convenienza, in quanto restituzione del «maltolto», cioè di parte delle ricchezze accumulate dalla mafia mediante un sistematico drenaggio delle risorse ed un’economia di rapina che condiziona e «vampirizza» il tessuto economico legale (a forza di estorsioni, usure, truffe, appalti truccati, tangenti eccetera). Drenaggio che ingrassa i mafiosi e i loro complici e lascia agli altri qualche briciola di elemosina, perché non alzino troppo la testa.

Il pacco di pasta, in altre parole, è la dimostrazione che l’antimafia è recupero di legalità che «paga» anche in termini di  concrete prospettive di una migliore qualità della vita, di un futuro più sereno. La pasta come esempio di economia pulita, sana e sostenibile; come prodotto di una comunità alternativa a quella mafiosa, che non punta al profitto ma allo sviluppo sano della persona e del territorio, con una mano tesa alla tutela dell’ambiente.

La pasta –  come ama dire  Ciotti – con una vitamina in più: la vitamina L come legalità.

P.S. Apprendo da un intervento di Nando dalla Chiesa sul Fatto del 19 marzo, intitolato «Quel libro alla Camera umilia le vittime di mafia», che alla Camera appunto, con la partecipazione dell’ex ministra Cartabia, è stata organizzata la presentazione di «un libro la cui cifra fondamentale è l’attacco alla legislazione antimafia e in particolare a Libera», che il libro liquida come un «concentrato di abusi e nequizie di ogni sorta». Il libro si intitola «L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene». Lo ha scritto Alessandro Barbano. Condivido lo sdegno di Nando dalla Chiesa, e anch’io vi vedo «lo spirito del tempo. Che s’intensifica. Soffia come un vento sinistro sulle leggi antimafia». Così, i «conformisti travestiti da voci coraggiose» trovano spazio, «come accadde con l’antimafia degli anni 80».

* Fonte: Rocca n°08 – 15 aprile 2023

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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Difendiamo le conquiste dell’antimafia, dal vento che vorrebbe cancellarle

Quel libro alla Camera umilia le vittime di mafia

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