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L’immigrazione clandestina via mare e le criticità dei centri di permanenza per il rimpatrio

Piero Innocenti il . Diritti, Istituzioni, Migranti, Politica, SIcurezza

L’utilizzo sistematico e tempestivo degli “accordi di riammissione” (sono quelli stipulati tra UE e Paesi “terzi” per disciplinate procedure biunivoche di rimpatrio di cittadini UE e del Paese interessato), le “buone prassi” o “procedure operative standard” (quelle stipulate dalla UE con alcuni Paesi terzi che seppur non giuridicamente vincolanti sono uno strumento omogeneo e funzionale per sviluppare la cooperazione) e le “Intese bilaterali” che ciascuno Stato membro ha attivato con i Paesi terzi di maggiore interesse, sono ritenuti dal Ministero dell’Interno tra i fondamentali presupposti per una strategia di rimpatrio di un cittadino straniero privo di titolo di ingresso/soggiorno nel territorio nazionale e nella c.d. “area Schengen”.

La condizione imprescindibile, in tale casi, per l’esecuzione di un provvedimento volto all’allontanamento di uno straniero è il possesso da parte di quest’ultimo di un documento di identità che ne consenta l’espatrio. Mancando tale presupposto gli Uffici di Polizia devono attivarsi per ottenere la compiuta identificazione ed il rilascio del documento di viaggio presso la Rappresentanza diplomatica del Paese di provenienza dello straniero.

La procedura, tuttavia, non è così spedita ed i “trattenimenti” degli stranieri da espellere nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) sono sempre problematici anche per il numero ridotto (dieci) di tali strutture su tutto il territorio nazionale.

L’ampliamento dei Cpr (di cui si è tornato a parlare in questi giorni), di capienza limitata (cento posti per ogni centro), in modo da assicurare la distribuzione sull’intero territorio nazionale, privilegiando siti e aree esterne ai centri urbani, era già previsto dal decreto legge 113/2018 (convertito, con modificazioni, con la legge 132/2018), ma è rimasta lettera morta soprattutto per le forti resistenza alla costruzione di tali strutture registrate nel tempo da parte di amministratori e comunità locali.

Si è sempre sostenuto che un maggior numero di Cpr sia fondamentale per incrementare il tasso dei rimpatri mentre, in realtà, analizzando i dati degli ultimi sette anni delle persone rimpatriate dopo essere transitate nei Cpr, si rileva mediamente una percentuale intorno al 50%.

Un risultato che non è stato mai attribuito al sovraffollamento dei Cpr, bensì alle difficoltà legate all’accertamento dell’identità delle persone trattenute in relazione all’intervento delle autorità consolari dei paesi di provenienza. Su quelle autorità, allora, si dovrebbe intervenire per una collaborazione più sollecita, oltre che stipulare accordi con i paesi di provenienza che spesso non ne vogliono proprio sentir parlare di rimpatri di loro connazionali ritenuti “problematici” per l’ordine pubblico.

Senza contare che gli accordi per i rimpatri vigenti con i Paesi africani sono soltanto una decina e spesso vengono disattesi come nel caso recente della Tunisia paese con il quale, prima della grave crisi economico – sociale che sta attraversando, era prevista la possibilità di rimpatrio con voli charter due volte la settimana per un massimo di 40 stranieri su ciascun volo (e comunque nel 2022 rimpatriati 2.234 tunisini.)

Sono decisamente insoddisfacenti anche le “buone prassi” stipulate a suo tempo dalla UE con la Costa d’Avorio (da questo Paese è arrivato in Italia il maggior numero di cittadini nel 2023, ben 5.204 sul totale di 31.537 alla data del 12 marzo).

Problematici anche i rimpatri con il Pakistan  (3.336 i pakistani soccorsi/sbarcati nel 2023) con cui pure vige un accordo di riammissione stipulato con l’UE.

In questa situazione il Governo ha deliberato lo stato di emergenza su tutto il territorio nazionale (un provvedimento che serve ad amplificare la dimensione del fenomeno migratorio facendo aumentare anche le ansie dei cittadini)  per la durata di sei mesi “per dare risposte più efficaci e tempestive alla gestione dei flussi migratori”, nelle parole di Giorgia Meloni.

In attesa, da più di venti anni, di una comune strategia europea che non arriverà mai.

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