I beni confiscati ai mafiosi non siano problema ma occasione di sviluppo
Nel 41esimo anniversario del vile assassinio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo possiamo affermare che prima di quel drammatico momento, malgrado il grande tributo di sangue che era stato versato dai “migliori cittadini” in circa 150 anni di “guerra civile” tra Stato e mafia, gran parte della classe dirigente dello Stato aveva scelto la strada della connivenza con i mafiosi.
Prima della legge Rognoni-La Torre lo Stato italiano si era dato un timido strumento con la legge n. 575 del 31 maggio 1965, che era stato applicata in maniera ancora più timida.
Lo spartiacque arriva nel settembre del 1982 con la legge n. 646, approvata dopo circa 5 mesi dall’uccisione di Pio e Salvo. Da allora ad oggi sono oltre 20 i provvedimenti legislativi che di fatto hanno dato vita alla giurisprudenza repressiva e preventiva della lotta alla mafia e ai mafiosi.
Grazie ad essa non solo sono stati arrestati e condannati decine di migliaia di appartenerti alle varie organizzazioni mafiose presenti sul territorio italiano e non, ma sono stati sequestrati e confiscati centinaia di migliaia di beni.
Questa azione dello Stato italiano rappresenta una pietra miliare unica in tutto il mondo.
Con gli strumenti di quella legge uno Stato democratico può sconfiggere i mafiosi e le mafie, e può togliere il frutto economico e finanziario accumulato con la violenza in questa secolare “guerra civile”.
Nell’ultima “Relazione semestrale al Parlamento sui Beni sequestrati o confiscati” predisposta dal Ministero della Giustizia si legge che sono 230.557 i beni che risultano presenti “dal 28 marzo 1997” nella Banca Dati Centrale. Questo rappresenta un grande risultato non solo investigativo, e mai i ringraziamenti saranno sufficienti a riconoscere il grande sforzo fatto da tutti quegli Organi dello Stato che a vario titolo sono impegnati in questa azione, ma anche politico ed etico. Certamente rimane un mistero come mai la Banca Dati Centrale parta “dal 28 marzo 1997” e non dal 1982. In questi 15 anni sicuramente ci sono stati beni sequestrati o confiscati.
La legge Rognoni-La Torre, e le sue successive modificazioni, è diventata, come per il Diritto Romano nei corsi di Giurisprudenza, la base globale per contrastare e sconfiggere, se si vuole, la tirannia mafiosa in tutto il pianeta con la forza di leggi che rispettano i principi del diritto basato sui canoni previsti dai principi fondamentali sanciti dall’ONU e in Italia dalla nostra Costituzione.
A 41 anni da questo vile assassinio ci sono tutti gli elementi per poter fare bilanci e valutazioni tendenti, non solo a sostenere le ulteriori iniziative per affinare e rendere più efficace ed efficiente la parte repressiva di questa lotta, ma anche per rendere più coerenti i sequestri o le confische, attraverso una sostanziale diminuzione della distanza tra sequestri o confische da una parte e l’utilizzo positivo dei beni e delle aziende dall’altra.
Ad oggi è evidente, sia dalla quantità sia dalla qualità dell’impegno, che alla positiva azione repressiva non è corrisposta e non sta corrispondendo da diversi anni una altrettanta positiva azione di restituzione al territorio e alle comunità di quanto i mafiosi hanno tolto con i metodi della tirannia e della violenza.
Ciò non è un problema riconducibile ai singoli magistrati, prefetti o amministratori pubblici che a vario titolo sono stati e sono impegnati in queste esperienze, ma alla volontà politica della classe dirigente di non essere coerente con le scelte fatte, basti pensare alla precarietà strutturale e operativa con la quale ha vissuto per decenni l’ANBSC.
È opportuno ricordare che ogni bene presente nella Banca Dati Centrale è frutto di indagini da parte di migliaia di funzionari dello Stato che sono chiamati a motivarne i provvedimenti.
Questo è il punto di partenza per ogni riflessione.
L’ultima “Relazione semestrale al Parlamento sui Beni sequestrati o confiscati” aggiornata al giugno 2022 rileva che “dal 28 marzo 1997” sono 230.557 i beni totali presenti nella Banca Dati Centrale. Di essi 103.702, pari al 45%, sono sottoposti a misure di sequestro o confisca (non definitiva o definitiva) e che 126.815, pari al 55%, sono o proposti (35.177) o dissequestrati o con proposta rigettata (91.638).
La loro tipologia è così articolata: immobili e aziende sono il 53,7% (immobili 107.056, aziende 16.942) e i rimanenti beni sono il 46,3% (finanziario 27.481, mobile 35.039, mobile registrato 43.999).
I sequestri/confische sono per il 72,6% dei beni/aziende prerogative del sud e delle isole (Sicilia), e i fascicoli/beni sono per il 77,5% prerogativa della stessa area.
Al 30 giugno 2022 sono 96.768 i beni/aziende confiscate, di cui 53.188 (23.1%) le confische non definitive, 35.115 (15,2%) le confische definitive e 8.465 (3,7%) le confische con destinazione.
Le tipologie dei beni confiscati in via definitiva sono così articolati: 12.564 (36,8%) Mobile registrato, 11.712 (33,4%) Immobili, 5.135 (14,6%) Mobile, 3.706 (10,6%) Finanziario e 1.998 (5,7%) Aziende, per un totale di 35.115.
A questo punto il significato delle parole gioca un ruolo essenziale:
Destinato, consegnato, utilizzato, attivo, in esercizio sono tutte parole sul cui significato reale non si fa chiarezza e spesso tutte queste definizioni servono a nascondere limiti e resistenze e, in alcuni casi, anche volontà di trarre profitti personali di cui le cronache hanno dato purtroppo conto.
Da tutte le statistiche prodotte e dalla pubblicistica istituzionale e non, non si ha notizia delle persone a vario titolo coinvolte nelle diverse sedi processuali e nella “gestione” dei beni.
In particolare non sono pubblicati i dati dei mafiosi contro i quali si attivano le procedure e non si sanno i dati (e le specifiche) di quante persone o soggetti associativi fruiscono a vario titolo (affittuari o lavoratori dipendenti/autonomi) dei beni/aziende.
Non si hanno notizie delle aziende attive, di quelle cancellate dal REC e di quelle poste in un limbo produttivo/economico/finanziario. Non esiste un elenco, con i principali indicatori merceologici/produttivi delle aziende attive. Non esistono piani industriali aziendali, di settore o di territorio e spesso l’emersione dall’illegalità di persone e cose è stato ed è visto come un prezzo da dover pagare con grande fastidio.
In poche parole, dopo 26 anni di attività, la statistica relativa a sequestri o confische è volutamente ermetica e poco trasparente. Chiaramente non è un problema puramente statistico o numerico
I numeri dovrebbero raccontare i successi economici della lotta ai mafiosi e, invece, ci dicono che dopo il sequestro dei beni e delle aziende sequestrate/confiscate lo Stato non è riuscito e non riesce, garantendo tutte le prerogative e le garanzie del processo di diritto, a disporne al meglio la gestione produttiva. Questo non significa che non ci siano aziende che producono e che sono in attività o che non ci sono immobili o altri beni utilizzati, ma il loro numero è palesemente esiguo. Delle 16.942 aziende presenti nella BDC, circa 2.000 sono confiscate e solo di un centinaio si conoscono gli esiti positivi.
Fermo restando che bisogna continuare nell’azione di sottrazione dei beni/aziende accumulati dai mafiosi con metodi violenti ed illegali, dopo un quarto di secolo di esperienza gestionale non si può più procedere a depauperare un enorme patrimonio produttivo/economico/finanziario.
Due esempi vorrei proporre per dare l’idea del cambio di passo politico/gestionale che auspico:
1) Una riflessione va fatta a partire da una gestione “non da procedura fallimentare” di questa ricchezza tolta ai mafiosi e che bisogna interamente, velocemente e visibilmente riconsegnare ai cittadini e in particolare ai lavoratori e alle lavoratrici dipendenti di queste aziende nei territori dove esse sono allocate. Un passo importante, e non ci sarebbe bisogno di nuove leggi, sarebbe quello di rendere trasparenti i numeri e le caratteristiche di questi beni/aziende e di dotarsi di Piani Industriali aziendali, di settore e territoriali concordati con CGIL, CISL e UIL in applicazione dei CCNL. La predisposizione di una banca dati pubblica delle aziende e dei beni, fruibile a quanti ne sono interessati, vuol dire indicare per loro una prospettiva positiva. Inoltre gli organi collegiali dell’ANBSC devono essere in grado di soddisfare questa esigenza dando piena applicazione con le loro direttive a quanto previsto dalla attuale legislazione. Non è chiudendo le aziende o lasciando chiusi gli immobili o lasciandoli deperire che si soddisfano le legittime aspirazioni di centinaia di migliaia di persone coinvolte in queste vicende.
2) Gli immobili, come così documentato dal ricco mercato immobiliare, non possono più essere considerati un “peso”. Pertanto una volta diventati pubblici, già da dopo il sequestro, vanno gestiti assieme agli strumenti che lo Stato si è dato per la gestione attiva del patrimonio immobiliare pubblico, coinvolgendo, oltre alle aziende immobiliari che fanno capo all’ANBSC, gli IACP(Istituti Autonomi per le Case Popolari) o detti anche ATER (Aziende Territoriali per l’Edilizia Residenziale). Oggi in Italia la “fame” di alloggi è cosi grande che solo un deciso utilizzo degli strumenti già in essere può rappresentare una risposta coerente e non fallimentare all’esigenza di fare incontrare le quantità e le qualità reali di chi ha gli immobili con chi non ha luoghi civili dove vivere. Mettere a pubblica trasparenza, efficacia ed efficienza quanto oggi è già a vario titolo nelle disponibilità dello Stato per fare incontrare domanda e offerta di immobili, utilizzando le graduatorie già esistenti o da bandire, è un’appropriata applicazione di quanto previsto dalla legislazione antimafia.
Un argomento a parte, tutto da approfondire, riveste il ruolo che la Regione Siciliana ha svolto in questi 41 anni. Lo Stato ha svolto il proprio ruolo, più in maniera positiva che negativa. Ma la Regione Sicilia, utilizzando la grande autonomia di cui gode, quale ruolo ha avuto nei sequestri, nelle confische e nella gestione di questi beni? Se sullo Stato si può e si deve dire, sulla Regione non si può dire nulla, perché il nulla è nulla. Una fase diversa ed attiva va aperta nei confronti del Governo della Regione al fine di far assumere un ruolo attivo e visibile a quello che ancora è il territorio dello Stato italiano maggiormente interessato alla “guerra civile”. Non bastano le “indagini” delle Commissioni Regionali Antimafia a prospettare un ruolo della Regione Sicilia ben diverso da quello attuale.
Dopo 41 anni, tenendo conto di tutta l’esperienza, positiva o negativa, si può e si deve dare nuovo slancio alla lotta alle mafie e ai mafiosi e all’azione dello Stato nel sequestro, confisca e pieno utilizzo dei beni legalmente tolti ai mafiosi. Trasparenza, efficienza ed efficacia devono iniziare ad essere gli strumenti ordinari con i quali si dà nuova linfa a questa ulteriore fase per la definitiva chiusura di questa secolare “guerra civile” dove lo Stato democratico, con le armi della Costituzione italiana, sia l’unico vincitore.
Fonte: Centro Studi Pio La Torre
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