Tra le sbarre. A Opera “scopro” l’antimafia che non ha la vendetta al posto del cuore
Arianna mi guida con la leggerezza di chi conosce i luoghi a memoria. Le strade che fendono i campi. Scritte minacciose sui muri che le costeggiano. Blocchi di edifici. Inferriate e dispositivi elettronici. Viene qui nel carcere di Opera da sette anni. Per un progetto che in poco tempo ha fatto crescere il numero dei detenuti iscritti alla Statale di Milano da 5 a più di 130.
Arianna Zottarel è una delle decine e decine di studenti e dottorandi che ci lavorano volontariamente come tutor, se mai fosse necessario smentire i luoghi comuni sui giovani d’oggi. E se mai fosse necessario, vista la sua storia, smentire l’idea di un’antimafia con la vendetta al posto del cuore. Mi fa da angelo custode salutando educatamente a destra e sinistra, mentre io resto ammirato da quel suo impegno schivo e mai guascone.
“Quando c’era il lockdown io ero tra i pochi che potevano venire. Solo che per le tante limitazioni i tempi di permanenza a volte si triplicavano. Che facevo in quelle pause lunghissime? Mi mettevo in un posto e studiavo”. Si inseguono le sale colloqui, lettura, lezioni.
In una è riunita la redazione di Cronisti in Opera, “periodico del carcere di Milano Opera”. Dopo alcuni minuti compare il nostro studente. Gli ho già fatto l’esame a distanza. Esito ottimo. Vuole rivedermi dopo uno scambio di lettere. Chissà che gli studi fatti con me non possano andare avanti in altro modo. Il mio studente è abbastanza maturo d’età. Ripara la testa sotto una cuffia di lana. Raffaele, questo il nome di fantasia, ha il forte accento della sua città, dai cui mali si è fatto un tempo risucchiare. Quel che mi affascina di lui è la totale assenza di vittimismo.
Non “la colpa è dello Stato”, o “della società”. Anche se l’autobiografia che mi sciorina con passione qualche colpa altrui la illumina di certo. L’adolescenza e la giovinezza come condanne. Un’infilata di cause e di effetti. È ironico e sottile. Vuole raccontarmi della sua grande evasione dal carcere.
E mentre mi predispongo a sentire una storia maledetta e avventurosa mi spiega che la sua grande evasione si chiama cultura. Che sono stati i libri a consentirgli di non sentirsi in carcere. E io proprio un libro ho voluto regalargli, quello scritto dopo l’assassinio di mio padre. Sembra gradirlo. Mi chiede la dedica. Non nega alcuna colpa. Mi spiega però che gliene hanno caricata qualcuna di troppo. Fino a infliggergli una condanna proprio per associazione mafiosa, che rifiuta con sdegno sincero. Verso la mafia, non verso i giudici.
“Ho sbagliato tanto, ho commesso reati anche gravi, mi sono trovato in situazioni che ancora mi chiedo come sia stato possibile, ma io non sono mai stato un mafioso”. Non voglio e forse non posso raccontarvi il suo sfogo educato.
Vi basti che la sua compostezza a volte non si trova nemmeno nei signori. Neppure un’unghia di turpiloquio. Ma un’amarezza palpabile e contagiosa per le ingiustizie che ritiene di avere subito, per le lunghe e incomprensibili sordità sanate dopo anni infiniti. Con la perdita netta – se così si può dire – di un pezzo di vita che indietro non tornerà e non vorrà saperne di farlo.
Avverto una sensazione di disagio per la facilità con cui maneggiamo quella parola magica, “giustizia”. Arianna e un altro tutor mi accompagnano verso l’uscita. Lei spiega le funzioni delle sale vetrate.
Finché dietro uno di quei vetri compare una figura a me familiare. A un tavolo, intento a parlare con due detenuti, vedo Paolo Setti Carraro. Proprio così, il chirurgo di guerra fratello di Emanuela Setti Carraro, uccisa con mio padre in quella sera del 1982. Ma che ci fa qui a Opera anche lui? Che ci facciamo qui tutti e due all’insaputa l’uno dell’altro 40 anni dopo?
Dev’essere l’antimafia con la vendetta nel cuore che ci ha condotto qui. Quante idiozie si dicono se il mondo si trasforma nel regno di Pavlov…
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 20/03/2023
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