Messina Denaro, vittimismo criminale
L’inchiesta della Procura e del ROS di Palermo su Matteo Messina Denaro e complici si rivela sempre più importante e incisiva. Le ultime notizie raccontano anche del rinvenimento di una specie di manifesto politico del boss.
“La Stampa” ha già informato ampiamente i suoi lettori, anche con un approfondimento di Marcello Sorgi.
Volendo aggiungere qualche considerazione, colpisce innanzitutto che un capo mafia stragista e latitante da 40 anni arrivi a dire che “ogni volta che c’è un nuovo arresto [per mafia] si allarga l’albo degli uomini e delle donne che soffrono per questa terra [di Sicilia]”.
Un’evidente tendenza al vittimismo, ovviamente del tutto ingiustificato, che però non è una novità in Matteo Messina Denaro. Egli infatti, in una delle lettere – risalenti al 2004 – scambiate con un ex sindaco di Castelvetrano che agiva per conto del Sisde (nelle lettere il boss si firma “Alessio”, l’ex sindaco “Svetonio”), scrive: “Credo, mio malgrado, di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto… ma va bene così… sono fatalista.[…]. Jorge Amado diceva che non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica e io sono d’accordo con lui. […] c’è stato un golpe bianco tinto di rosso attuato da alcuni magistrati con pezzi della politica […].Oggi per essere un buon politico basta che si faccia antimafia […]. Sono un nemico della giustizia italiana che è marcia e corrotta dalle fondamenta, lo dice Tony Negri ciò ed io la penso come lui”.
Al netto di uno sfoggio di “cultura” piuttosto sorprendente, come si vede per il Malaussène della mafia lo sviluppo quasi pavloviano della presunta persecuzione (di tutti e di tutto) sconfina subito in uno pseudo “garantismo” strumentale, assai diffuso nel Nostro Paese anche in ambienti insospettabili.
Ma il punto chiave del “manifesto” è quello in cui Messina Denaro si erge a interprete dell’intero popolo dei mafiosi come lui, affermando che essi sono perseguitati “come non fossimo della razza umana” ma diventati “una etnia da cancellare”. È un inaspettato rovesciamento di un classico della mentalità mafiosa come ricostruita da illustri studiosi.
Il mafioso infatti interiorizza Cosa nostra come l’unico mondo nel quale vi sono individui degni di essere considerati “persone” (non a caso autodefinitisi “uomini d’onore”). Il mondo esterno è invece una realtà “nemica” da depredare, nella quale vivono individui destinati a essere assoggettati, “oggetti” che non hanno dignità umana. Una “reificazione” del mondo esterno che sfocia nell’assoluta mancanza di senso di colpa dei killer e di chi li comanda. La convinzione di appartenere a una entità speciale che crea un totale distacco emotivo e disattiva la sfera dei sentimenti.
Se tutto ciò vale per il mafioso “medio”, figuriamoci per un “capo” come Matteo Messina Denaro. Temuto e ossequiato da tutti (mafiosi e non); forte di protezioni anche di alto livello e di una immensa fortuna economica; capace per decenni di una “comoda” latitanza; regista di stragi ed efferati delitti (fino alla disumana vendetta trasversale contro Santino di Matteo, colpito da una rappresaglia di stampo nazista attraverso il figlio tredicenne Giuseppe).
Ma ecco che ora, nei “pizzini” scovati e acquisiti dagli inquirenti, Messina Denaro appare non più convinto di appartenere a una entità (etnia) speciale, superiore. Al contrario, si atteggia a povera vittima di una persecuzione di tipo “razzista”. E nello stesso tempo cerca di assumere la veste di un moderno Robin Hood, figlio di “questa terra di Sicilia stanca essere sfruttata da uno Stato prima piemontese e poi romano che non riconosciamo”.
Rigurgiti di propaganda separatista? Boutade di auto esaltazione? Frutti della grave malattia incombente? Probabilmente un po’ di tutto ciò, ma anche un modo per mantenere e consolidare quel “consenso sociale” che – piaccia o meno – è da sempre, per il potere mafioso, un puntello difficile da spezzare.
Fonte: La Stampa, 08/03/2023
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