Marciapiedi a Milano, calvari orizzontali e sotto boschi verticali: indovinate grazie a chi
La prova dell’esistenza di Dio è la bellezza del creato.
In filosofia è la classica tesi cosmologica, quella dell’orologio e dell’orologiaio. Se l’orologio esiste, qualcuno l’ha fatto. E qui l’orologio-cosmo è particolarmente bello, prodotto di una superlativa ingegneria, mosso da meccanismi perfetti. Raffinato, resistente. Già, il creato. Le stelle, i pianeti che girano, la natura degli esseri viventi. Questo la tigre ce l’ha perché le serve per…E il calabrone quest’altro ce l’ha per…
Affascina l’idea che qualcuno possa essere l’artefice di questa ingegneria e architettura infinita e meravigliosa. Ci penso anche quando vedo il verde che nasce sui terrazzi trenta metri sopra di me. Certo, invenzione dell’uomo già con i babilonesi. Ma proprio questo ha di stupendo il creato: che chi lo abita ha la possibilità di renderlo ancora più bello.
Però alt. Perché a questo punto voi direte: “ma che c’entra questa astruseria con le storie italiane?”. Giusto. Ora ve lo spiego.
Capita dunque che nella quotidianità ci accorgiamo non solo delle bellezze che ci portano a provare gratitudine verso entità diversissime tra loro. Da chi fece il mondo in sei giorni al giardiniere che rende rigoglioso il parco, dall’architetto che ha concepito un grattacielo di vetro e fantasia all’umile signore che tiene linda la strada.
Ma ci accorgiamo anche delle bruttezze che ci circondano. E ci chiediamo, ovviamente, se anche queste abbiano un creatore. Nella mia città poi proprio non si può trattenersi dal chiederselo. Soprattutto se lo sguardo va ad altezza d’uomo. Non parliamo se va ad altezza di piede.
Perché la bruttezza suprema, specchio di un creatore altrettanto brutto e incapace (altro che l’orologiaio…), sta esattamente nei marciapiedi. Che sono una sterminata antologia di scempi e di dissesti. Me li studio, ormai.
Ci sono marciapiedi a tre livelli, che scorrono non su piani paralleli e ordinati, ma procedono scompostamente e proditoriamente sovrapposti. Ci sono discese che paiono voragini, pronte a diventare vasche d’acqua a ogni pioggia, scarti verticali improvvisi di trenta-quaranta centimetri. Gobbe continue a pelle di leopardo, rialzi e buche.
Nella mia città chi impara a camminare sui marciapiedi lo impara per sempre, così come chi prende la patente a Napoli. Altro che alzare gli occhi verso il cielo. Se lo fai inciampi in qualcosa e sei fortunato se non ti sloghi una caviglia. Occhi ben puntati verso il basso, tipo gli “occhi in basso, Carmela” di un famoso film anni cinquanta.
I marciapiedi sembrano comporre come in un tristissimo Lego piccoli lotti, di pochi metri quadri. Tutti visibilmente fatti e rifatti, sicché a seconda delle volte in cui ciascuno è stato rifatto aumentano gli strati di asfalto accumulati uno sull’altro, creando differenze nelle distanze dal livello del mare delle singole vie e delle loro porzioni. Anche l’era dello strato su cui camminate è tradita dai colori e dalla porosità dell’asfalto.
Eppure una volta non era così. Ma proprio per niente.
Quando ero bambino i marciapiedi erano totalmente lisci, non dovevo guardare per terra quando andavo a prendere il latte. Non si inciampava nei marciapiedi, e il loro colore era omogeneo, non erano un patchwork grigio-nero.
E dunque eccoci. Chi è il creatore di questo scempio? Sicuramente qualcuno che fa movimento terra, o no? Qualcuno che vince gli appalti e i subappalti perché fa i marciapiedi al massimo ribasso (od “offerta economicamente più conveniente”), o no? E che così poi li può rifare ancora, per necessità pubblica, al massimo ribasso. In una infinita sarabanda.
Non per colpa dei sindaci attuali. Ma da decenni, ribasso dopo ribasso, avendo un riconosciuto monopolio nel settore.
Vedete? Siamo partiti dalla prova dell’esistenza di Dio e siamo arrivati alla prova dell’esistenza della ‘ndrangheta. È bastato camminare sui marciapiedi.
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 06/03/2023
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