La guerra, noi e gli altri
Un anno è già passato.
Di fronte alla guerra ogni volta e ogni giorno ci sommergono l’impreparazione, l’inadeguatezza, la vulnerabilità, l’incredulità, l’impotenza, l’incertezza, il dubbio.
Le macerie si accumulano, morti e feriti si contano in un bollettino quotidiano che non fa più notizia.
Il rischio dell’assuefazione e persino del rigetto è strisciante e reale.
Si impone un imperativo etico che diventa anche scelta politica: reagire al torpore della ripetitività, resistere alla tentazione della rimozione, evitare la deriva dell’accettazione inconscia dell’ineluttabile.
Occorre mantenere vivo uno spirito critico, tenere alto lo sguardo sull’orizzonte per impedire che il rumore, il fuoco e il fumo delle esplosioni annichiliscano l’intelligenza residua.
Non abbiamo la possibilità di cambiare lo scenario di una guerra, ma ci guida la convinzione che sia necessario continuare a cercare di capire, approfondire, distinguere, comprendere per poter intravvedere le vie possibili e i sentieri ancora aperti al dialogo, alla diplomazia, alla convivenza, al rispetto, alla pace.
“La guerra è solo una fuga codarda dai problemi della pace”, scriveva Thomas Mann. Parole che ci possono ridare speranza e coraggio, nella consapevolezza che soltanto più conoscenza reciproca può portare a nuove relazioni tra i popoli, ad assumere il rischio della pace, a scegliere l’impegnativa opzione della nonviolenza.
Tutte le guerre in atto nel pianeta, da un anno o da decenni, sono un pesante macigno sul senso dell’esistenza dell’umanità.
Perciò abbiamo bisogno di fare un passo in avanti dentro ogni cultura, tradizione, religione, nazione, avendo per ben chiaro che gli altri sono come noi e hanno gli stessi diritti e doveri.
Se ogni persona è come me, uccidere è un suicidio.
Aveva ragione Albert Schweitzer: “Il primo passo nell’evoluzione dell’etica è un senso di solidarietà con gli altri esseri umani”.
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