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Conoscere le mafie. Serve una cassetta di attrezzi diversi per analizzare, prevenire e contrastare

Monica Massari * il . Corruzione, Diritti, Istituzioni, Mafie

Come si può studiare un fenomeno segreto, oscuro, illegale, pericoloso? Quali sono gli strumenti a disposizione per raccontare le mafie? Quanto è importante andare oltre le immagini di senso comune, risultato di rappresentazioni sociali diffuse, profondamente legate alla prospettiva istituzionale?

Per rispondere a queste domande, diversi ricercatori hanno unito le proprie differenti chiavi di lettura in “Come si studiano le mafie? La ricerca qualitativa, le fonti, i percorsi”, testo curato da Monica Massari e Ombretta Ingrascì per Donzelli Editore. Monica Massari spiega perché, sia la domanda, sia le risposte offerte possano risultare fondamentali per suggerire alle istituzioni analisi del contesto che consentano di attuare strategie utili a prevenire e contrastare il fenomeno.

Da oltre 20 anni, insieme a diverse colleghe e colleghi provenienti da vari ambiti disciplinari – dalla sociologia al diritto, dagli studi storici a quelli geografici fino a quelli più strettamente criminologici – ci confrontiamo rispetto alle nostre esperienze di studio sulle mafie. Approcci, sensibilità, sguardi differenti uniti dalla volontà comune di interrogarsi criticamente sul fenomeno mafioso e sulle rappresentazioni e immagini talvolta stereotipate che circolano nel dibattito pubblico, attraverso la ricerca sul campo.

Lo stimolo per sistematizzare le nostre prospettive è arrivato da un convegno online che io e Ombretta Ingrascì abbiamo organizzato nel 2021, durante il lock down. Erano presenti tutti coloro che poi hanno scritto i saggi contenuti nel volume, invitati a partecipare a un’occasione di autoriflessione sulle forme e pratiche della ricerca sul campo rispetto al fenomeno mafioso.

Se già dagli anni Ottanta possiamo, infatti, contare su tanti studi sistematici sull’argomento, in realtà fino ad ora nessuno si è veramente interrogato su questioni metodologiche importanti che sono un po’ le domande al cuore del volume, curato assieme a Ombretta Ingrascì con l’introduzione di Rocco Sciarrone: come si può studiare ciò che non si presta ad essere osservato direttamente? Quali sono le fonti a cui attingere? Quali utilizzare per costruire un’analisi il più possibile priva di stereotipi e volta ad una lettura critica del contesto in cui attecchisce e matura il potere delle mafie?

Per rispondere, siamo andati anche oltre la riflessione prettamente metodologica che ci aveva visti dibattere assieme durante il convegno, costruendo un percorso scientifico comune frutto del dialogo avviato, nel corso di circa un anno, con ogni singolo autore del libro.

Oltre le fonti riconosciute

Uno dei temi centrali ha riguardato le fonti disponibili per conoscere le mafie. Quelle principali per trattare il fenomeno, ribadendo la particolare segretezza e i codici oscuri che lo caratterizzano, sono le fonti giudiziarie e quelle prodotte dalle forze di polizia. Entrambe, però, dovrebbero essere maneggiate con estrema cautela.

Si tratta infatti di materiale che è già il frutto di una selezione da parte di chi conduce le indagini, spesso corredate di intercettazioni ambientali o telefoniche volte soprattutto a provare appartenenze e figure di reato specifiche. Talvolta vengono acquisite, da una parte della stampa, senza essere contestualizzate. Le ritroviamo infatti così come sono nei giornali, ma anche in alcuni studi. Questo può provocare delle distorsioni nella comprensione del fenomeno.

Siamo partiti quindi da una riflessione che cercasse di assumere una prospettiva critica volta a decostruire il postulato di assoluta verità o neutralità di queste fonti istituzionali agli occhi di osservatori non esperti.

È stata una riflessione che ci ha portato a mettere in evidenza, in maniera analitica e condivisa, la sostanziale parzialità di quanto queste fonti riportano, perché costituiscono il risultato di una selezione da parte degli organi di polizia e giudiziari che le predispongono e le sintetizzano per l’obiettivo prefissato di provare quanto è necessario alle loro indagini. Sono quindi già il frutto di un processo di interpretazione: bisogna tenerne conto quando si utilizzano per studiare il fenomeno nella sua complessità o in un ambito diverso da quello per cui sono state prodotte.

I limiti del racconto

Abbiamo poi preso in esame le narrazioni sulle mafie che risentono di un senso comune abbastanza condiviso nella rappresentazione che nutre anche il dibattito pubblico su di esse. Un esempio eclatante lo possiamo dedurre, in queste settimane, dalle modalità con cui è stato riportato l’arresto di Matteo Messina Denaro, comprese le informazioni sulla latitanza che ne sono scaturite.

Una gran parte della stampa, ma anche alcuni rappresentanti delle istituzioni, hanno utilizzato un registro retorico trionfalista che celebrava la vittoria dello Stato sulla mafia come se fossimo appunto in presenza di una lotta tra Stato e Antistato che, come ben sappiamo, è una deduzione priva di fondatezza.

Oggi è particolarmente diffusa la considerazione per cui ci siano voluti 30 anni per arrestare il latitante a causa della presenza di collegamenti da parte di Messina Denaro proprio con ambienti istituzionali che ne hanno protetto la latitanza, ma questa è una costante nella storia della mafia. La mafia è sempre stata un fenomeno (anche) politico, non mi sembra vi sia nulla di eccezionale – sotto questo profilo – da registrare.

Altra nota insolita nel racconto della vicenda Messina Denaro riguarda l’enfasi con cui si è trattato il tema della cosiddetta borghesia mafiosa, ribadito sia dalla stampa, sia dalla magistratura che ha portato avanti le indagini. Non è il concetto a stonare, ma che sia stata presentata come se fosse una novità una categoria concettuale già proposta da tempo da vari studiosi – penso soprattutto a Umberto Santino – e utilizzata sin dagli anni ’70 come una delle chiavi attraverso cui leggere il fenomeno mafioso.

Per cercare di comprendere il potere delle mafie è necessario spostare lo sguardo dalla violenza agita dalle organizzazioni criminali e da particolari categorie di persone, per osservare come esso vada oltre, sia trasversale rispetto ad ambienti sociali e contesti e coinvolga un po’ tutte le classi sociali. Il sistema di potere della borghesia mafiosa è immanente alle mafie tanto da consentire loro l’acquisizione crescente di potere.

I mafiosi sono attenti da sempre alla cura delle relazioni di potere, ma soprattutto anche delle relazioni di mercato inserite nel sistema capitalista. Non è una novità, come è evidente già dalle ricerche degli anni ’80 portate avanti da Pino Arlacchi Raimondo Catanzaro che hanno evidenziato quanto le mafie costituiscano una particolare articolazione del sistema capitalista in gran parte del nostro paese, non solo al sud.

Chi fa ricerca in questo campo sa bene che il concetto di borghesia mafiosa fa riferimento ad un sistema di relazioni ben radicato nella società, che ha consentito ad una molteplicità di individui di intraprendere percorsi di ascesa sociale.

Non retorica ma analisi critica

Per comprendere un fenomeno così complesso è importante decostruire le immagini di senso comune sul piano delle rappresentazioni sociali che spesso vengono acquisite in maniera acritica, data anche la fonte autorevole da cui provengono. È dovere dei ricercatori mantenere fede al proprio impegno scientifico, mettendo sistematicamente in discussione la realtà che vanno ad osservare.

Ma questo dovrebbe valere anche per gli organi informativi e per le istituzioni: considerare la neutralità talvolta molto parziale delle fonti da cui provengono le informazioni eviterebbe di diffondere immagini retoriche, enfatiche che si prestano ad un utilizzo politico, poco funzionale alla realizzazione di politiche di prevenzione autentica o di intervento efficace sul fenomeno.

Come dicevo prima, sia il discorso della lotta tra Stato e Antistato, sia l’enfasi sul concetto di borghesia mafiosa, rientrano in narrazioni delle mafie che possono apparire particolarmente avvincenti, quasi copioni di opere cinematografiche che vanno ad intercettare il registro del mistero, ma in realtà si tratta di elementi ricorrenti di una storia pressoché secolare.

Richiamandone la centralità nelle analisi contemporanee si rischia tra l’altro di commettere l’errore di relegare l’universo mafioso all’interno di spazi sociali ben definiti, abitati solo da presunte classi pericolose, come se fosse possibile confinare il male in compartimenti stagni della società. Si utilizza un concetto che può essere allettante, mediaticamente e politicamente, ma poco funzionale ad una presa di coscienza utile sul fenomeno. La consapevolezza dell’esistenza storica e sociale della borghesia mafiosa dovrebbe portare a interpellare tutto quel mondo che non rientra tra le classi pericolose, ma che di fatto ha permesso e consente tuttora alle mafie di continuare ad esistere.

Nelle scorse settimane abbiamo assistito a programmi televisivi in cui si dava letteralmente la caccia a semplici cittadini di Campobello di Mazara interpellati sulla loro consapevolezza o meno della presenza di un mafioso di quella levatura nella loro cittadina, ma difficilmente quegli stessi cittadini sono stati sollecitati a esprimersi sulle attività oscure e ambigue di tanti imprenditori che operano in quella zona, professionisti, amministratori pubblici.

Occhiali di lettura diversi per vedere meglio

Il nostro libro cerca di sollecitare una discussione più ampia sulla necessità di recuperare degli occhiali di lettura più adeguati per confrontarsi con tutto ciò. Abbiamo bisogno di arricchire il più possibile la cassetta degli attrezzi di cui disponiamo e, per farlo, occorre esercitare un’attenta consapevolezza critica, ripartendo proprio dalle fonti e da un nuovo impulso alla ricerca sul campo.

Nel testo ci sono vari esempi di ricerche realizzate in diversi territori che ci aiutano a decostruire criticamente rappresentazioni stereotipate. Penso ad esempio alla ricerca di Gabriella Gribaudi sugli spazi fisici e sociali in cui i clan di camorra si sono radicati, soprattutto nella città di Napoli.

Si tratta di luoghi rappresentati dai media con immagini cupe e terrificanti che alludono a un dominio incontrastato dei gruppi criminali. In realtà dalla ricerca emerge un’immagine molto più complessa, grazie al fatto che l’autrice è stata in grado di incrociare tra loro fonti orali, osservazione sul campo e documentazione giudiziaria. E che le ha consentito di approfondire l’analisi e fare luce sulla complessità della composizione sociale, sull’intricato rapporto fra vicini e camorristi e sulla stratificazione storica della geografia e delle memorie che caratterizzano un territorio.

Vivere in un certo territorio spesso viene considerato alla stregua di una colpa. Nel capitolo di Vittorio Martone, ad esempio, si ritorna su questi temi, sottolineando come gli strumenti antimafia, talvolta, diventino, in alcune città come Roma o Napoli, leva di governo dell’ordine pubblico, con risultati ambivalenti, perché se possono essere efficaci nel contenere l’ala più propriamente militare dei clan, dall’altro innescano dinamiche di etichettamento, soprattutto di alcuni quartieri, che poi diventano egemoni nel dibattito pubblico.

In queste periferie, dove troviamo spesso una concentrazione di disagio abitativo, deprivazione economica, insufficienza dei servizi pubblici locali, disoccupazione, dispersione scolastica e svantaggio educativo, condizioni di marginalità e segregazione che poi alimentano forme di riproduzione della devianza, siamo soprattutto di fronte a forme di fragilità sociale, economica ed esistenziale che non di presenza mafiosa.

Sono forme di stigmatizzazione a cui spesso si oppongono ragazze e ragazzi che non accettano più di essere considerati in maniera automatica sulla base del luogo di provenienza o che, peggio, interpretano questi discorsi in maniera reattiva: “Se siamo visti tutti come spacciatori, allora lo facciamo veramente.” La riduzione della complessità può portare a innescare, dunque, conseguenze ben più gravi.

Sono tanti i contributi in cui il lettore attento troverà stimoli e sollecitazioni. Silvio Ciappi, ad esempio, in uno dei capitoli finali del volume ci ricorda come occorra sempre più un’etica dell’umiltà in questo mestiere, che significa cercare di non immiserire la nostra professionalità, come studiosi e studiose di questi fenomeni, con teorie precostituite, ma, piuttosto, di andarsi a sporcare le mani con la materia viva di cui sono fatti i fenomeni sociali.

L’invito che il nostro libro fa proprio e rilancia è di non temere di accogliere l’ignoto, l’inusuale, lo spaesante, ciò che è forse meno rassicurante, ma indubbiamente è in grado di attivare processi, analisi, valutazioni in grado di ispirare politiche più utili, attente ai fenomeni, ai contesti e agli individui coinvolti.

Speriamo, quindi, che questo volume possa umilmente offrire, soprattutto a chi si avvicina per la prima volta allo studio di questi fenomeni, ma anche ai lettori attenti o semplici cittadini e amministratori che desiderano arricchire la propria cassetta degli attrezzi, uno strumento utile ed efficace.

* Professoressa associata di Sociologia presso il Dipartimento di Studi Internazionali, Giuridici e Storico-Politici dell’Università degli Studi di Milano

Fonte: Avviso Pubblico

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