Giornalisti italiani «bloccati», i silenzi e Meloni a Kiev
Lunedì sarà a Kiev Giorgia Meloni, come annunciato. Una domanda a presidente del consiglio e ministero degli esteri: parleranno della vicenda dei giornalisti italiani Andrea Sceresini, Alfredo Bosco e diversi altri, cui è stato ritirato l’accredito dai servizi segreti ucraini e che rischiano un processo senza colpe? L’Italia è un paese sovrano o un punto geografico alla mercè dei desideri altrui? Vale la costituzione antifascista o sottotraccia imperano i riti della Nato?
Siamo al cospetto di un clamoroso sintomo della crisi in corso, nella quale la sorveglianza cibernetica e l’utilizzo strumentale dei vecchi e nuovi media svolgono una funzione cruciale. La guerra ha tra i suoi bersagli, infatti, la libertà di informazione e -anzi- una delle novità orrende di un conflitto orrendo è proprio la caccia al cronista che cerca di raccontare la verità senza veli o bavagli. Nell’età dell’infosfera, poi, il giornalismo viene considerato parte integrante di tattiche e strategie dei comandi con le stellette, e non un’attività necessaria per conoscere e diffondere le notizie sotto l’egida dell’autonomia professionale.
I misfatti non vanno raccontati. La narrazione deve fermarsi ai confini decisi dalle autorità. Oltre, c’è la scossa elettrica e incombe la repressione autoritaria. Ecco il sottotesto.
Certamente, questo vale per l’Ucraina come per la Russia. Si tratta di una triste fenomenologia, tipica dell’involuzione autoritaria in atto. Tuttavia, ora si coglie un salto di qualità: il segreto è essenziale per coprire i traffici occulti delle armi e abbassare il sipario sulle verità scomode.
In fondo, WikiLeaks e Julian Assange hanno pagato per qualcosa di simile, in proporzioni maggiori, ma dentro il medesimo filo nero. Non si deve sapere, il re non è nudo.
Il sospetto, legittimo e non infondato, è che vi sia pure voglia di vendetta da parte dell’esercito di Kiev dopo la doverosa polemica che l’ha investito per l’uccisione nel 2014 -nel corso della guerra nel Donbass- del fotoreporter Andrea Rocchelli. Il caso, raccontato solo da alcuni giornalisti free lance allora presenti in Donbass, scotta ancora, eccome.
E, poi, è evidente l’avvertimento generale: chi esce dalla logica embedded rischia. Insomma, colpirne qualcuno, per educarne molti.
Che dice, dunque, il governo italiano? Per l’intanto, deve almeno rispondere alla tempestiva interrogazione parlamentare depositata dal segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni. Altre e altri parlamentari faranno lo stesso? Al momento, colpisce l’assenza di una reazione adeguata alla virulenza dell’attacco. L’associazione Articolo21 ha battuto un colpo, un po’ troppo sola. Come se la faccenda non riguardasse tipologie e modelli della comunicazione, toccando l’essenza di un diritto fondativo della democrazia, a prescindere dai diversi orientamenti politici e culturali. Tacere oggi ha un sapore corrivo e persino omertoso.
Che dicono le testate, Rai compresa, con cui i professionisti nel mirino collaborano costantemente? Senza i loro servizi, infatti, sapremmo ancora di meno. I telegiornali sembrano muti. Dimenticanza o soggezione?
Si è appena concluso il congresso nazionale della federazione della stampa: ecco un compito immediato per il nuovo gruppo dirigente.
Serve, infatti, una mobilitazione forte e consapevole: ne va del diritto all’informazione.
Guai a sottovalutare i pericoli, quando si manifestano e assumono sembianze chiare. O aspettiamo che arrivino proprio i mostri?
Fonte: il manifesto, 18/02/2023
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