La recidiva scende al 2% tra i detenuti che lavorano
“Occorre fare rete tra il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, il mondo del Terzo settore che è la realtà più attiva in carcere nell’ambito del lavoro e le aziende. Come Cnel vogliamo creare un tavolo di aumentare il numero di detenuti che lavorano in carcere”, dice il consigliere di Cnel, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Gian Paolo Gualaccini.
Nel 2022 sono avvenuti 84 suicidi nelle carceri italiane, il numero più alto di sempre (il tremendo record negativo precedente era del 2009, con 72 morti). Si tratta di 13 casi di suicidi ogni diecimila detenuti. Fuori dal carcere sono 0,6 ogni diecimila persone. Dinnanzi ad un fenomeno così complesso, non c’è mai una singola causa: hanno contribuito l’isolamento, la fatica a sentire gli affetti vicini, il sovraffollamento dei detenuti del 110% in media negli istituti di pena, la mancanza di direttori alla guida di molte carceri, così come del personale – sia agenti, che funzionari giuridico-pedagogici (educatori).
“Ma anche il fatto che in carcere lavorino solo il 30% dei detenuti. La stessa percentuale in rapporto ai detenuti che è rimasta costante dagli anni ‘90 ad oggi. C’è di più, solo il 4% dei detenuti, ovvero 2400 persone recluse, è attivo nel mercato del lavoro, sia dentro gli istituti di pena, che uscendo ogni giorno per lavorare nelle cooperative sociali o nelle aziende del territorio, imparando una professione. Il lavoro dà dignità a tempo della pena, permette di far scoprire capacità e mettersi al servizio della società. E abbatte la recidiva, che è al 70% tra chi non lavora, e scende al 2% per chi esce dal carcere che ha imparato un mestiere durante la pena”, illustra Gian Paolo Gualaccini, consigliere di Cnel, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro.
Dati alla mano, inoltre, chi lavora nell’amministrazione del carcere percepisce una remunerazione di un terzo rispetto ai detenuti che lavorano all’intento dell’istituto di pena o in articolo 21, ovvero fuori dal carcere, e hanno diritto alle ferie remunerate, alle assenze per malattia e il datore di lavoro paga per essi i contributi assistenziali (assicurazione sanitaria) e pensionistici. Numeri, questi, che sono stati presentati a Roma al Cnel, durante il convegno “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario” introdotto dal presidente dle Cnel Tiziano Treu e dal vicepresidente Floriano Botta. “Abbiamo sancito un patto fra l’Amministrazione penitenziaria, il Terzo settore e il mondo delle aziende profit, con l’obiettivo di incentivare la funzione rieducativa della pena carceraria, avvicinando il mercato del lavoro al mondo degli istituti di pena. I dati dimostrano che la finalità rieducativa della pena è ancora un obiettivo sostanzialmente inattuato, ma per i detenuti lavoratori i dati sono ottimi. la rieducazione deve passare dal lavoro e da una collaborazione tra il Dap, Cnel, il Terzo settore e le aziende”, afferma Gualaccini.
Quello avviato dal Cnel con il Ministero della Giustizia e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria è un primo passo per facilitare l’ingresso dell’imprenditoria all’interno degli Istituti di pena, già previsto dalla legge193/2000 (la Legge Smuraglia), che offre incentivi economici alle aziende che assumono detenuti. “Tra queste – ricorda Gualaccini – uno sconto del 95% sui contributi che il datore di lavoro versa allo Stato per la pensione e l’assistenza sanitaria; l’utilizzo gratuito dei locali e le eventuali attrezzature esistenti; un bonus di 520 euro mensili (sotto forma di credito di imposta) per ogni detenuto assunto. Le agevolazioni proseguono nei diciotto o ventiquattro mesi successivi alla scarcerazione del detenuto, se prosegue il rapporto di lavoro all’esterno con lo stesso datore di lavoro, quindi assumere un detenuto conviene. Bisogna lavorare perché questa sia una possibilità sempre più all’ordine del giorno sulle scrivanie dei giudici dei Tribunali di Sorveglianza, non un’eccezione”.
Al convegno “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario” è intervenuto anche Carmelo Cantone, vicecapo del Dap: “Implementare lavoro in carcere non significa togliere lavoro all’esterno è invece un grande valore per la società e anche di arricchimento del mercato del lavoro stesso. Mai come in questo momento storico c’è bisogno di portare sempre più imprese a sostenere i progetti di reinserimento dei detenuti perché il lavoro penitenziario risente della recessione, così come del periodo pre e post Covid. Il lavoro all’interno degli istituti penitenziari è svolto per la maggior parte in servizi domestici e di manutenzione ordinaria e, in misura minore, sia in attività industriali presso lavorazioni direttamente gestite dall’amministrazione, che in attività agricole nelle colonie agricole”.
Ora l’obiettivo, conclude Gian Paolo Gualaccini è fare in modo che “chi esce dal carcere non viva una “lotta tra poveri” e “nuovi poveri” per l’accesso al mondo del lavoro. È fondamentale quindi che ai detenuti sia data oggi la possibilità di formarsi all’utilizzo delle tecnologie, e che esse siano applicate al lavoro, non fine a se stesse. Abbiamo bisogno di formare e far lavorare i detenuti laddove il mercato cerca e non trova competenze. Speriamo, ad esempio, che gli Its possano entrare in carcere facendo attecchire la riforma appena entrata in vigore dell’alta formazione”.
Fonte: vita.it
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