La riforma di Nordio, il «Marchese del Grillo»
Il nuovo Guardasigilli Nordio si è autoprogrammato con modalità «Marchese del Grillo». Nel senso che ostenta granitiche e sprezzanti certezze sfornando a getto continuo, in sede istituzionale e non, idee di modifica del codice di procedura penale con ripercussioni sulla stessa Costituzione.
E se qualcuno osa stupirsi per questo o quel profilo, lui si stupisce dello stupore, obiettando che tutto era già scritto nei suoi articoli di giornale, per cui poche chiacchere. Tanto più che su qualche punto il Nostro si dichiara già in partenza (prima ancora di un confronto) pronto a dimettersi se non riuscisse ad averla vinta.
Si vuole fare a pezzi la separazione dei poteri
Di quello che De Gaulle avrebbe definito «un vasto programma» vogliamo qui esaminare due punti: la separazione delle carriere fra pm e giudici e lo stop alla obbligatorietà dell’azione penale.
In un caso e nell’altro la magistratura di fatto cesserebbe di essere indipendente e sarebbe sottoposta al volere della maggioranza politica del momento (quale ne sia il colore). Perché ovunque vi sia una qualche declinazione della separazione, le forze politiche contingentemente al potere possono – per legge – impartire al giudiziario, tramite l’esecutivo, ordini o direttive da ottemperare. E perché se l’azione penale non è obbligatoria ci sarà qualcuno incaricato di indicare i reati perseguibili e quelli no, e a farlo non potranno che essere le forze politiche che in quel momento comandano.
Con il risultato che il principio della separazione dei poteri e – appunto – della indipendenza della magistratura sarà fatto a pezzi; e con l’ulteriore devastante effetto di azzerare, sostanzialmente, l’uguaglianza di tutti i cittadini si fronte alla legge. L’arretramento del nostro sistema ad una fase pre-costituzionale sarebbe clamoroso. Come si può vedere ripercorrendo alcuni aspetti della la storia italiana.
Sotto la dittatura fascista, sciolta d’imperio l’Associazione magistrati, la corporazione – nonostante alcune nobili eccezioni – si conformò al regime fino a una sostanziale sudditanza, tant’è che, a differenza degli altri pubblici funzionari, ai magistrati non venne chiesto alcun giuramento di fedeltà, almeno fino all’avvento della Repubblica di Salò.
Per escludere la possibilità che ciò potesse ripetersi, la Costituzione si è conformata al principio cardine delle democrazie moderne, ovvero la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, strutturando un sistema in cui nessuno dei tre prevale sugli altri ma c’è un controllo e bilanciamento reciproco. Ha poi stabilito che i giudici sono «soggetti soltanto alla legge» e ha istituito il CSM (Consiglio superiore della magistratura) affidandogli il compito di garantire l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati ordinari, civili e penali.
La lunga notte dell’inadempimento costituzionale
Purtroppo, però, il passaggio dal fascismo alla democrazia è avvenuto all’insegna della continuità. A parte la rifondazione dell’Associazione nazionale magistrati (ANM), i segnali normativi e politici di novità nel settore giustizia sono stati pochi, per di più frustrati dalla mancanza di un significativo rinnovamento personale e di mentalità.
Magistrati pesantemente compromessi col regime riuscirono a fare prestigiose carriere, raggiungendo addirittura la presidenza della Corte di cassazione (l’ex procuratore generale della Repubblica di Salò Luigi Oggioni) e quella della Corte costituzionale (l’ex presidente del tribunale della razza Gaetano Azzariti).
E non fu soltanto una questione di singoli nomi. La commistione tra magistratura e luoghi del potere politico non subì modifiche sostanziali fino agli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso.
Era l’epoca in cui il procuratore generale della Cassazione definiva gli infortuni sul lavoro «una fatalità»; gran parte della magistratura, siciliana e non, era attestata sulla tesi che «la mafia non esiste»; la procura della Repubblica di Roma era disinvoltamente, e non a caso, chiamata «porto delle nebbie»; e un procuratore generale rilasciava affidavit (cioè attestati di onestà e affidabilità) al suo amico bancarottiere Michele Sindona, protetto da Giulio Andreotti. E non sono indebite generalizzazioni.
Ci fu, nel dopoguerra e oltre, una lunga notte di inadempimento costituzionale. Il CSM, ad esempio, poté cominciare a funzionare soltanto nel 1959. Prima, se nel corpo giudiziario si affacciava qualche tendenza a manifestazioni di indipendenza non gradite al potere, scattavano censure autorevoli e intransigenti.
In generale la magistratura rimase fortemente condizionata fino agli anni Sessanta, rendendosi – per usare parole del giurista Luigi Ferrajoli – «un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un ‘corpo separato’ dello stato, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subalterne ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili».
La riscoperta della Costituzione
Il quadro cambia con la «riscoperta» della Costituzione nella sua essenza di democrazia pluralista, contrapposta all’onnipotenza della politica, su cui si innestano i principi fondamentali dell’indipendenza della magistratura e dell’eguaglianza dei cittadini, principi che confluiscono nell’obiettivo di realizzare una democrazia emancipante, contenuto nell’art. 3 capoverso della Carta. Il quale dice che rimuovere gli ostacoli che limitano libertà e uguaglianza «è compito della Repubblica», usando l’indicativo presente, rivolto alla Repubblica in tutte le sue articolazioni, magistratura compresa.
Un esempio concreto ci aiuterà a comprendere meglio le conseguenze della «riscoperta» della Costituzione anche da parte della magistratura.
C’era un tempo in Italia in cui nelle acque pubbliche, mari e fiumi, torrenti e ruscelli, laghetti e paludi, si poteva rovesciare di tutto, anche le sostanze più tossiche, perché nessuna legge lo impediva e nessuna legge imponeva i depuratori. La tutela della salute pubblica, bene fondamentale garantito come diritto dalla Costituzione, era lettera morta.
Scarlino, in piena Maremma in provincia di Grosseto, è ancora oggi una delle aree più inquinate della Toscana a causa dell’ex polo industriale Montedison (che per decenni ha prodotto acido solforico e un componente per la «sinterizzazione» del biossido di titanio). I «fanghi rossi» erano veri e propri veleni riversati dalla Montedison nelle acque pubbliche senza troppi problemi, nel più totale vuoto normativo. Finché un pretore di Livorno (Gianfranco Viglietta: Jorge Amado gli ha perfino dedicato un suo libro) non scova, nella pletora della legislazione penale che caratterizza il nostro ordinamento, una leggina a tutela del patrimonio ittico, un reato da niente, una contravvenzione punita con poche lire di multa a carico di chi danneggia i pesciolini. Un reato «bagatellare» ma pur sempre un reato, che in quanto tale permette di mettere in moto tutti i meccanismi del processo penale, compreso il sequestro del corpo del reato, in questo caso lo stabilimento Montedison.
La svolta degli anni ’60 e ‘70
Siamo negli Anni ‘70, la Montedison, come potere economico e politico, è forse seconda soltanto alla Fiat. Eugenio Cefis è uno degli uomini più influenti d’Italia. Eppure viene condannato per i «fanghi rossi di Scarlino». Lo scandalo che ne segue è clamoroso e i giudici che lo hanno originato devono subire una reazione rabbiosa.
Insieme ad altri colleghi che nello stesso periodo finiscono sotto i riflettori per analoghi processi, a tutela dei diritti dei cittadini ma contro soggetti «forti», piuttosto inclini a preferirei «servizi» alle decisioni imparziali. Vengono scherniti come «pretori d’assalto». Una definizione irridente e delegittimante al tempo stesso. Battezzarli così, come assalitori con il coltello tra i denti (mentre tra i denti, semmai, avevano la Costituzione e la legge) era il modo migliore per intimidirli, bloccarne l’azione o sminuirne i risultati. L’esordio, insomma, di una tecnica che ancora oggi (anzi, soprattutto oggi) gode di ottima salute.
Oggi come allora, chi teme il controllo di legalità sui suoi interessi e affari, per respingere o depotenziare l’azione della magistratura non esita ad attaccare il magistrato di turno appiccicandogli addosso una falsa etichetta di appartenenza politica o deformazione professionale: pretore d’assalto ieri, giustizialista oggi.
L’importante è sbandierare una specie di cartellino rosso che squalifichi, estrometta il giudice da un campo d’azione che – se lo mettano bene in testa lui e i suoi colleghi – in futuro si potrà frequentare soltanto a rischio e pericolo del malcapitato che non accetti di far finta di niente.
Nordio e il vasto programma
Con le riforme (???) di Nordio lo spazio per iniziative a tutela del bene comune come quella dei «fanghi rossi» rischiano di ridursi al lumicino. A chi obiettasse che in questo modo si demonizza la politica italiana, si potrebbe ribattere che fuori dai nostri confini la politica di solito sa bonificarsi da sola, neutralizzando le «mele marce» senza bisogno di processi penali.
Purtroppo, invece, l’Italia è caratterizzata da una corruzione diffusa, da collusioni con la mafia, da mala-amministrazione nelle più svariate accezioni, da vicende oscure che coinvolgono pezzi della politica, oltretutto refrattaria a ogni forma di responsabilità extragiudiziaria.
Conviene che proprio questa politica riesca, grazie alla separazione delle carriere e alla non obbligatorietà dell’azione penale, a pilotare il pm su che cosa indagare e che cosa invece lasciar correre? A chi fare terra bruciata intorno e a chi invece strizzare l’occhio? Sarebbe come aprire il pollaio alla volpe. Per l’Italia della legalità, un suicidio.
Con il rischio che non si facciano più indagini sulla corruzione o sulla «zona grigia» della mafia, o sui misteri dei servizi deviati, o sugli abusi a opera delle forze di polizia. Qualcuno, che aspetta solo questo, potrebbe finalmente proclamare che la corruzione e le collusioni mafiose sono scomparse. Anzi, non sono mai esistite!
Nordio, per concludere, si proclama garantista. Anzi, campione di garantismo. Attenzione però alla tendenza malsana di snaturare le parole, di piegare i concetti fino a svuotarli di significato, rovesciando sistematicamente la verità e costruendo una realtà virtuale, sulla quale imporre le proprie scelte.
Prendiamo appunto la parola garantista. Chi si autodefinisce tale ogni tre per due, di solito dimentica (o neppure sa) che di garantismo ce n’è più d’uno.
C’è il garantismo classico, secondo il quale le garanzie o sono veicolo di uguaglianza o si degradano a strumento di sopraffazione e privilegio. C’è un garantismo strumentale, diretto a depotenziare la magistratura, che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico. Parallelo a quest’ultimo è il garantismo selettivo, che adegua le regole in base allo status sociale dell’imputato.
Molti di coloro che si autoproclamano garantisti DOC, sentendosi così autorizzati a scovare in ogni dove eretici giustizialisti da mettere alla gogna, si ispirano in realtà a quelle forme che sono la negazione dell’autentico garantismo.
Il «Marchese del Grillo», credo, sarebbe stato uno di loro.
* Fonte: Rocca n°02 – 15 gennaio 2023
Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi
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