Messina Denaro. Le parole sono pietre. Non chiamiamolo “capo dei capi” o “Re”
Noi abbiamo attenzionato, voi avete attenzionato, essi hanno attenzionato. Ancora non riesco a trattenere un brivido, nel sentirlo. Come a scuola quando i gessi stridevano sulla lavagna.
Davvero non si ce la si fa davanti a giornalisti, politici e studiosi che parlano come scriveva un appuntato di sessant’anni fa. Poche cose come questo minuscolo dettaglio documentano la possibilità che la cultura di un paese regredisca mentre si alza il titolo medio di istruzione. Inutilmente ci mise in guardia don Milani: ogni parola in meno che sapete sarà un calcio nel sedere in più dal vostro padrone. Lo diceva ai suoi discepoli, destinati in gran parte ai campi o alla fabbrica. Ma sarà il caso di dirlo anche a chi lavora in un ufficio, un dipartimento, una redazione, un ministero.
Pensate che impoverimento di linguaggio, a furia di studiare e andare a scuola: l’alternativa ad “attenzionare” è “monitorare”. Ovvero o lo sfregio della grammatica o l’inglese. Non si può dire “seguire”, né “studiare” o “verificare”, e nemmeno il semplicissimo “controllare”.
Chissà quanto è stato attenzionato Matteo Messina Denaro. E quanto è stato attenzionato il signor Bonafede. Ma immagino che i carabinieri abbiano attenzionato anche la clinica Maddalena. E, visto che siamo in tema, chissà se le indagini sono ancora in corso o se sono state “finalizzate”. E, in caso negativo, quanto tempo ci vorrà prima che vengano “finalizzate”.
Ma proprio la vicenda di Messina Denaro invita a un supplemento di riflessione sulle parole che usiamo.
È tornata infatti di moda, con prepotenza, l’espressione “Capo dei capi”. Venne usata molto tempo fa per Totò Riina. Perché sfondava le soglie dell’attenzione, perché “bucava il video”, dal momento che alla vita del capomafia corleonese venne dedicata una serie a puntate. Ben fatta.
Che però scivolò e fece cultura proprio a causa di quel titolo. “Capo dei capi”: un’immagine di potere e di prestigio, di superiorità, che alle menti meno allenate arriva con una serie di mediazioni culturali. Con effetti disastrosi, specie sui ragazzi di certi contesti ad alta densità mafiosa. Ora ha avuto il suo rilancio di massa. Anche con una certa sciatteria di conoscenze.
Perché Messina Denaro non è mai stato il capo di Cosa Nostra, al massimo lo è stato della provincia di Trapani, con un supplemento di forza che gli veniva dall’alleanza con i corleonesi. Importante, certo, la cui latitanza è diventata una cartina di tornasole della sfida tra lo Stato e le profondità della società mafiosa. Ma non un capo supremo.
La mia validissima collega Alessandra Dino ha anzi argomentato come Messina Denaro non sia stato un capo ma un leader, e non è questione di lana caprina. Ma non basta. Perché stavolta un noto scrittore ha coniato un appellativo ulteriore: “Re”. Messina Denaro come un re, con la erre maiuscola. Magnifico: capo dei capi e pure re. E poi ci si lamenta che ne nasca la leggenda tra i ragazzini.
Ricordo che da bambino, a Roma, passai davanti a un cinema parrocchiale in via della Conciliazione, in Vaticano. E vidi il titolo del film in programma: “il Re dei re”. Si trattava di Gesù, naturalmente. Ne rimasi colpito e innocentemente vidi Gesù in un’altra prospettiva rispetto a quella che mi era stata insegnata a catechismo.
“Capo dei capi”, “Re”: per Matteo Messina Denaro. Amici cari, ma ci rendiamo conto del senso e dell’impatto delle parole? Vogliamo capire che questa non è solo una drammatica partita tra guardie e ladri, ma è una difficilissima battaglia culturale che ci coinvolge tutti, sempre? Non possiamo permetterci né la povertà del linguaggio, né le iperboli gratuite. L’una e le altre ci disarmano.
Ricordiamo piuttosto quella straordinaria immagine consegnataci da Carlo Levi a partire dal suo incontro con la madre di Salvatore Carnevale, sindacalista leggendario (lui sì!): “le parole sono pietre”.
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 23/01/2023
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Dalla Chiesa, il mio vero padre nella fiction “Il nostro generale”
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