Catania. Grazia e Mariapia, il nostro addio a due protagoniste gentili dell’antimafia
Siamo compagni di viaggio. Maledettamente compagni di viaggio.
L’ho ripensato con dolore vedendo scendere dal treno negli ultimi giorni due donne che ho ammirato. Tutte e due catanesi. Tutte e due ribelli alla mafia. Nessuna delle due nota al grande pubblico. Figlie di un tempo, di una stagione che molto diede non solo a Catania, ma al Paese.
Dovete sapere (ma in molti già lo sanno) che un tempo quella di Catania era definita dai palermitani la provincia babba. “Babba” per dire ottusa, tontolona. Perciò, veniva spiegato con occhi scintillanti, non aveva la mafia, segno invece di fantasia e intelligenza. A Palermo le stesse persone potevano dirvi che la mafia non c’era, e che la superiorità di Palermo rispetto a Catania derivava dall’avere la mafia.
A un certo punto, erano i primi anni ottanta, si dovette prendere atto che la mafia catanese conquistava gli appalti palermitani, ed era pure nelle grazie di Totò Riina. E che in un certo senso Catania era “babba” per la ragione opposta, perché non aveva i movimenti antimafia che a Palermo facevano marce e fiaccolate.
Che mentre a Palermo nascevano magistrati che avrebbero dato lustro all’Italia nel mondo, a Catania no. Anzi c’era un mensile di nome “I Siciliani” e diretto da Pippo Fava, un signore fissato con l’etica del giornalismo, che denunciava proprio i silenzi e le complicità del Palazzo di giustizia catanese.
Poi proprio quel giornalista fu ucciso. E grazie alla battaglia della sua giovane redazione, di qualche prete, di tre-quattro intellettuali, degli studenti e di qualche “comunista”, specie donne, tutto si ribaltò.
Catania con la sua nuova società civile divenne un punto di riferimento nazionale nella lotta alla mafia. Basta silenzi e basta anche piagnistei. Durò quasi dieci anni, fino al 1993, quando il figlio del giornalista ucciso, Claudio, fu incredibilmente a un passo dal diventare sindaco. 48 o 49 per cento, sostenuto solo dalla Rete e da Rifondazione comunista in una città di destra. Come a dire che i movimenti contano qualcosa.
Grazia Giurato e Mariapia Puglisi furono protagoniste di quella indimenticabile stagione. La ribellione alla mafia in nome di Fava, assunto a simbolo collettivo. Parteciparono in modo diverso.
Grazia con la sua militanza femminista e comunista, ma di una indipendenza politica esemplare, che la portò anche in consiglio comunale, con la lista della Rete appoggiata dalla parrocchia di San Pietro e Paolo.
Mariapia operando come insegnante, svolgendo con presenza discreta e continua nella scuola milanese la funzione di avanguardia culturale che ebbero a quel tempo tanti supplenti meridionali. Che invece di portare a Milano costumi malavitosi, come accusava la Lega di Bossi, facevano da battistrada per tutti a una nuova modernità urbana. Tutte e due erano cariche di vita e di ironia.
Rividi Grazia, a cui nel 2012 avrei scritto la prefazione per un libro speciale (“Ancora ci credo”), a una grande manifestazione dei girotondi a Roma nel 2003. Scoppiettante come sempre. Mariapia se ne andò invece da Milano, ricacciata a Catania (e poi a Roma) dal costo della vita.
Persi le tracce di entrambe, purtroppo. Non furono due presenze assidue nella mia vita. Due luci accese sì, però. Di Mariapia, per ricordarla, ho chiesto di farmi vedere una foto. Di Grazia, che avevo conosciuto molto meglio, ho cercato qualcosa nel mio computer, purtroppo alleggerito per accidente di migliaia di mail. Ma una sua lettera infine l’ho trovata. È del 2012. Parla dell’attività del “tuo Pollicino”, come l’avevo ribattezzata per dire che anche se non andava in tivù lasciava però sul sentiero i sassolini per le ragazze che avessero voluto seguirla.
La storia delle ribelli dell’antimafia ha perso due protagoniste gentili. Che non sono state famose. Ma che proprio per questo io voglio qui salutare con il grazie di quanti le hanno conosciute.
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 16/01/2023
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Vivere con lentezza. La cooperazione che viene da lontano e va più lontano
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